Chamberlain non disse nulla.
«Ascolta, se la legge avesse seguito il suo corso, ci sarebbe stato un lungo processo e forse, tra quattro o cinque anni, Billy Ryan sarebbe stato il boss della sua corsia nel carcere di Belmarsh o in quello di Parkhurst. Non sto dicendo che quello che è successo sia giusto, o che se l'è cercata. Non è questo. È solo che non riesco a sentirmi in colpa per la sua morte.»
Il lampo negli occhi di Chamberlain era scomparso, sostituito da uno sguardo più caldo. «Neanch'io ho il cuore spezzato, se è per questo» disse.
Thorne alzò il bicchiere. «E non dimentichiamo che con la sua morte i contribuenti hanno risparmiato un sacco di soldi. E che i suoi avvocati dovranno rinunciare a una vacanza di lusso a spese del loro cliente...»
Chamberlain non sorrise. «Purtroppo ora che è morto non potremo più interrogarlo. Come faremo a sapere chi fu a bruciare Jessica?»
La birra si fece improvvisamente amara nella bocca di Thorne, e gli scese in gola densa e nera come il dubbio e il senso di colpa.
«Se non è stata una confidenza da letto,» disse Chamberlain «allora perché glielo hai detto?»
Thorne scosse la testa. «Davvero non ne ho idea. Avevo la sensazione che lei avesse bisogno di saperlo.»
«O forse tu avevi bisogno di dirglielo.»
«Mi sono sentito meglio dopo averglielo detto, questo è vero.»
«E adesso?»
Adesso sembrava fosse passata una vita dalla notte in cui aveva dormito con Alison Kelly, e non solo tre settimane. Adesso tutto sembrava confuso e incerto, mentre allora tutto gli era sembrato chiaro: una semplice scelta tra una verità scottante, difficile da mandare giù, e un'ignoranza che non si poteva certo definire beata. Thorne ricordò un'iscrizione che aveva letto su una lapide poche ore prima.
Nella vita e nella morte, nel buio e nella luce. Siamo tutti nelle mani di Dio.
Sembrava semplice. La vita era luce, la morte era tenebra. Ma per alcune anime la situazione era più complessa. Non c'era dubbio che Billy Ryan avesse vissuto nelle tenebre. E rispetto a se stesso, Thorne non sapeva cosa dire.
«Adesso? Vorrei tanto aver tenuto la bocca chiusa. Non perché così avrei salvato Ryan...»
«Avresti salvato lei.»
«Ora passerà molti anni in prigione.»
«Forse la corte sarà clemente, considerate tutte le attenuanti.»
Thorne scosse la testa. «Non credo. E lei lo sa. Ha preso una decisione, prima di fare quello che ha fatto. E ha scelto la prigione.»
«Proprio come il nostro amico Gordon Rooker» disse Chamberlain. «Forse le nostre prigioni non fanno abbastanza paura.»
«Già» disse Thorne, automaticamente. Ma non lo pensava. Alison Kelly l'avrebbe trovata abbastanza brutta.
Chamberlain posò il bicchiere e si chinò in avanti. «L'ha scelto lei, Tom. L'hai detto tu stesso. Non sei stato tu a metterle la pistola in mano.»
«Invece sì, in un certo senso.» Thorne ingollò un sorso di Guinness. Il sapore non era migliorato affatto. «Qualcuno non ha detto che la conoscenza è pericolosa?»
«È possibile» rispose Chamberlain. «Di sicuro qualche stronzo.»
Il suo sguardo e il modo in cui pronunciò la parola, con il suo accento morbido dello Yorkshire, fecero ridere Thorne. E finalmente il velo di sudiciume che gli copriva la mente si sollevò.
«Come va il tuo caso insoluto, Carol? Quello dell'allibratore pugnalato.»
«Insoluto è una parola che non rende l'idea. È un caso più freddo dell'interno di un frigorifero. Certo, devo ammettere di non avergli concesso tutta la mia attenzione, in questo periodo...»
«Forse adesso riuscirai a concentrarti di più.»
«Forse.»
«Billy Ryan. Jessica Clarke. È arrivato il momento di non pensarci più.»
Lei spalancò gli occhi. «Certamente. Come dire che per te i nomi Bishop, Palmer e Foley non significano più nulla.»
Thorne si toccò il pizzo, pensando ai casi a cui alludeva Chamberlain. Casi che gli avevano lasciato un segno profondo. Una cicatrice sempre fresca. Come una maschera che non puoi mai toglierti, aveva detto qualcuno.
«Sai,» disse dopo un attimo di riflessione «era meglio prima, quando mi insultavi.»
La stazione della metropolitana di Tottenham Court Road era quella che andava meglio a entrambi. Thorne poteva prendere la Northern Line fino a Kentish Town, e Chamberlain, cambiando a Oxford Circus, sarebbe arrivata rapidamente a Victoria Station, in tempo per l'ultimo treno che l'avrebbe riportata a Worthing.
Passarono accanto alla chiesa di St. Giles, fondata all'inizio del dodicesimo secolo come ospedale per i lebbrosi. Il cimitero dietro la chiesa conteneva i corpi di molti criminali impiccati a Tyburn, ai quali l'ultimo bicchiere era costato molto meno di quanto Thorne e Chamberlain avevano appena speso.
Attraversarono Denmark Street, dirigendosi verso Charing Cross Road. A nord, l'orizzonte era dominato dal Centre Point, un blocco di uffici che un tempo era considerato elegante, ma che era rimasto vuoto per parecchio tempo, dopo la sua costruzione, tanto che un'istituzione benefica per i senzatetto aveva ironicamente preso il suo nome. L'edificio si innalzava in una zona che centocinquant'anni prima era stata una delle più malfamate della città, la Rookery. Un labirinto di stradine sporche e di cortili invasi dai topi, dove il crimine era di casa e i poliziotti non osavano avventurarsi.
Thorne illustrò la storia del posto a Chamberlain, mentre camminavano. La Rookery aveva prosperato, se così si poteva dire, per oltre un secolo, prima di essere finalmente demolita a metà del 1800 per lasciare spazio a quella che oggi è New Oxford Street.
«Tu e io parliamo molto di storia» disse lei.
Thorne rise. «Già.»
«Perché, secondo te?»
Thorne ci pensò su. «Forse perché pensiamo di poter imparare qualcosa.»
«È davvero così?»
«Che possiamo, è sicuro. Che ci riusciamo, un po' meno. E questo vale per tutti. Non credo sia cambiato molto...»
Chamberlain disse qualcosa, ma le sue parole si persero nell'urlo di una sirena. Un furgone della polizia passò a tutta velocità, diretto verso Leicester Square. Thorne scosse la testa. Chamberlain aspettò che il livello di rumore tornasse normale, poi ripeté: «Forse questo è rassicurante».
Guardando le vetrine degli Internet Café e dei negozi di computer, Thorne immaginò le fogne a cielo aperto, le famiglie stipate in una stanza. Uomini e donne dediti al furto e alla prostituzione per mantenere un livello di vita che poteva essere descritto solo come inumano.
«Hai mai letto Oliver Twist?» chiese a Chamberlain. Dickens aveva descritto in modo magistrale, anche se un po' romantico, la vita nella Rookery e in posti simili, attraverso la creazione di personaggi come Bill Sikes, Fagin e la sua gang di minorenni.
Chamberlain scosse la testa. «No, ho visto solo il musical.»
Thorne proseguì per alcuni passi prima di fare la sua confessione. «Molti anni fa, io ho partecipato a una riduzione scolastica del musical.»
«Davvero? Avrei pagato qualunque somma per vederti.»
«Ti saresti sentita defraudata...»
Thorne aveva interpretato il suo ruolo, e si era divertito, beatamente ignaro che le persone reali sulle quali erano modellati i personaggi facevano ben di peggio che sfilare portafogli dalle tasche dei passanti.
«Ti ricordi le canzoni?» chiese Chamberlain, e cominciò a canterellarne una, ma Thorne non la seguì.
«Ricordo che avevo un cappello che quando veniva schiacciato riprendeva la forma da solo. Ricordo la mia tata che mi faceva cenni dalla platea, e ricordo di aver fatto tutto il possibile per attirare l'attenzione della ragazza che interpretava Nancy.»
Entrarono nella stazione della metropolitana, dirigendosi verso le barriere girevoli.
«Vedi?» disse Chamberlain. «Anche allora agivi in base a quello che ti diceva il cazzo...»
Appena entrato in casa, Thorne mise a bollire l'acqua per il tè e andò a sedersi sul divano. Provò a chiamare suo padre, ma la linea era sempre occupata.
Si stava ancora riabituando ad avere l'appartamento tutto per sé. Hendricks era tornato a casa sua da una settimana, e Thorne doveva ammettere che gli mancava la sua presenza. Tuttavia era piacevole avere un po' di quiete, e sinceramente non sentiva la mancanza delle scarpe da ginnastica lasciate qua e là e i commenti al vetriolo di Hendricks sulla sua collezione di dischi.
Dopo qualche minuto chiamò un operatore, chiedendogli di controllare la linea di suo padre, e scoprì che non stava parlando con nessuno. Probabilmente dopo una telefonata si era dimenticato di riattaccare.
Era piacevole godere nuovamente di un po' di privacy. Hendricks non aveva molte inibizioni, ma Thorne si sentiva a disagio a muoversi mezzo svestito davanti all'amico. Sapeva di essere stupido, ma molte volte il percorso dal letto al bagno era stato piuttosto complicato.
Thorne preparò il tè e se lo portò in soggiorno. Mise su della musica, e prese un'enciclopedia di Londra da una mensola.
La Rookery di St Giles era stata demolita nel 1847.
Continuò a leggere, ascoltando Laura Cantrell e bevendo ogni tanto un sorso di tè.
Mentre si avvicendavano diversi re Giorgio, e la scienza e le rivoluzioni cambiavano il mondo, la povertà e il crimine nelle zone più degradate della capitale avevano raggiunto livelli incredibili. I poveri si ammazzavano tra loro, vendendo i propri figli per comprare del gin, e la legge li lasciava fare.
Due secoli dopo, le droghe in uso erano diverse, e la pistola aveva sostituito il bastone e il rasoio. E le zone degradate venivano chiamate "quartieri popolari".
Thorne ricordò le parole di Chamberlain quando avevano udito la sirena.
Rassicurante non era proprio la parola giusta...
CAPITOLO 24
«Allora,» disse Rooker «volete dirmi che tipo di protezione riceverò?»
Spostò lo sguardo da Thorne a Holland, cercando di capire qualcosa dalle loro espressioni. I due poliziotti si scambiarono uno sguardo, senza dire nulla.
La parte del caso che comprendeva la testimonianza di Gordon Rooker era precipitata nella confusione. La protezione di un testimone diventava un tantino inutile, quando la persona da cui bisognava proteggerlo si faceva squarciare la gola dalla ex moglie. Come Thorne aveva già spiegato a Rooker, esistevano diversi livelli di protezione, a seconda del pericolo corso dal testimone. Rooker aveva saputo dell'assassinio di Ryan quasi prima dei giornalisti, attraverso il tam tam carcerario, e si era immediatamente attaccato al telefono, esigendo di sapere che cosa ne sarebbe stato di lui. Gli era stato spiegato che, con il casino sollevato dalla morte di Billy Ryan, la sua tranquillità non era tra le priorità di nessuno.
Ora, faccia a faccia con Thorne per la prima volta dopo l'omicidio di Ryan, Rooker voleva una risposta definitiva.
Thorne annuì, con aria grave. «Credo che potrai contare su un sistema di copertura un po' meno complesso di una nuova identità, e forse disporrai anche di un mezzo per allertare le autorità competenti, nel caso ti sentissi minacciato.»
«Può ripetere, per favore?»
«Ti daranno una parrucca e un fischietto» disse Holland.
«Oh, smettetela di prendermi in giro...»
La realtà era che nessuno aveva preso una decisione riguardo a Rooker.
Lui si trovava ancora nel reparto del carcere di Salisbury riservato ai testimoni sotto protezione, ma avrebbe potuto tornare senza problemi nella sezione per i prigionieri vulnerabili della prigione di Park Royal, o forse addirittura in un carcere generico, visto che ormai non correva più alcun pericolo da parte di Billy Ryan.
Questa idea lo aveva gettato in uno stato di panico così profondo da spaventare il legale che gli aveva comunicato l'informazione. Alla fine, più per incapacità di prendere una decisione che per altro, Rooker era stato lasciato dov'era. Questo lo aveva calmato, ma solo temporaneamente.
«Non capisco» disse Holland. «Pensavo che saresti stato felice di sapere che Billy Ryan è sotto due metri di terra.»
Rooker schioccò le labbra. «Sarei più contento se i metri fossero dieci. E certamente se avessi del vino farei un brindisi alla salute di Alison Kelly. Peccato che non l'abbia ucciso con un pennello appuntito.»
«Allora per quale motivo ci hai fatto venire qui?» chiese Thorne. «Francamente, io ho di meglio da fare.»
«Come fate a essere certi che io non sia più un bersaglio?»
Thorne alzò gli occhi al cielo. «Forse perché Billy Ryan ora fa da concime alle margherite nel cimitero di St Pancras?»
«E Stephen?»
«Stephen cosa?»
«Nessuno può dire cosa farà.»
Thorne gettò un'occhiata a Holland. Doveva ammettere che Rooker aveva ragione. Anche loro, negli ultimi tempi, avevano speculato parecchio su come avrebbe reagito Stephen Ryan all'assassinio del padre.
«Stephen potrebbe anche scegliere di fare il duro,» disse Rooker «e di farmi uccidere per saldare un conto aperto.»
Holland si morse un'unghia. «Non credo, Gordon. Stephen è certamente un bastardo, ma non può non sapere che tu non c'entri nulla con l'omicidio del padre.»
Rooker socchiuse gli occhi. «Sa perfettamente cosa voglio dire, porca puttana.»
«Ehi, attento a come parli» disse Holland.
«Scusate. Pensavo solo che lui potrebbe decidere di chiudere alcuni conti in sospeso. E magari stavolta si servirà di persone più affidabili di Alun Fisher.»
«Non penso proprio» intervenne Thorne. «Anche lui come noi ha parecchie altre cose di cui preoccuparsi, in questo momento.»
L'uomo accostò la moto al marciapiede e attese, senza spegnere il motore, mentre il fiume del traffico continuava a scorrere.
Sudava per il caldo sotto la tuta di pelle, mentre aspettava che il respiro tornasse normale.
Sollevò il visore di alcuni centimetri e inalò boccate di aria tiepida, che sapeva di benzina e catrame. Sentì anche l'odore grasso che proveniva dalla fila infinita di fast-food su quel pezzo di Seven Sisters Road.
Con la moto che possedeva solo da quella mattina, era riuscito a muoversi agilmente nel traffico, ed era in anticipo. Pensò di fermarsi a bere una Coca, ma sarebbe stato un rischio.
Nel portaoggetti sul retro aveva una bottiglia d'acqua, insieme a varie altre cose. Poteva fermarsi a bere più avanti, in qualche posto migliore, per ammazzare il tempo prima dell'ora in cui doveva consegnare il messaggio.
Quello era il lavoro più importante che gli fosse stato affidato finora. Aveva detto alla moglie di preparare la valigia per il mare. Costumi da bagno, maschera, pinne e lozioni solari a forte protezione per i bambini. Le aveva detto che il posto era una sorpresa. Aveva prenotato un soggiorno di quattro settimane alle Maldive. Con quel lavoro avrebbe guadagnato abbastanza da pagare tutto, e gli sarebbero rimasti anche i soldi necessari per risolvere altri problemi di famiglia, come per esempio mandare il figlio maggiore in una scuola privata, visto che a Islington le scuole pubbliche erano un disastro.
Ora avrebbero avuto il denaro per coprire i primi tre o quattro anni, e forse avrebbero potuto permettersi anche qualche lavoretto di ristrutturazione in casa. Lui conosceva dei muratori che gli avrebbero fatto un buon prezzo, garantendo un lavoro di qualità.
Fare un buon lavoro senza chiedere prezzi assurdi. In realtà era semplice. Anche lui avrebbe potuto costruirsi una buona reputazione in quel modo. Sapeva che c'erano altri, nel ramo, soprattutto stranieri, che chiedevano parecchio. Ma secondo lui una politica di prezzi accessibili pagava di più, a lungo termine.
Azionò la freccia e si preparò a ripartire.
Non il più caro, ma ugualmente uno dei migliori. Quello voleva che pensassero di lui. In fondo a tutti piaceva fare un buon affare.
Un camion con rimorchio gli passò accanto rombando. Si immise nel traffico, accelerò e lo sorpassò in pochi secondi.
Rooker era rimasto in piedi, forse pensando che così sarebbe sembrato più autorevole. «Avevamo un accordo» disse.
Thorne non si lasciò impressionare. «Io sono un funzionario di polizia, tu sei un criminale. E questo è un carcere, non un club privato dove concludere accordi con una stretta di mano. L'unica parte di te che ho voglia di stringere è il tuo collo. Sono stato chiaro?»
Rooker digrignò i denti, senza rispondere.
«Qualunque accordo pensassi di avere,» intervenne Holland «vale esattamente un po' meno di niente.»
«È così» disse Thorne, alzando le spalle. «Mi dispiace.»
Rooker si trascinò fino alla sedia e vi si lasciò cadere sopra. Si passò una mano sulla barba bianca che gli spuntava dal mento. «Io so molte cose» disse. «Su parecchia gente. Ne ho rivelate alcune all'ispettore capo Tughan e ai suoi ragazzi, ma altre le ho tenute per me.»
«Come mai?» chiese Thorne.
«Perché non ero certo che voi vi sareste comportati onestamente.»
Holland scoppiò a ridere. «Noi? Comportarci onestamente con te?»
«Ho avuto ragione, no?» disse Rooker, sputando un po' di saliva.
Thorne non aveva difficoltà a credere che Rooker non avesse detto loro tutto quello che sapeva. E che Tughan non avesse comunicato alla squadra tutto quello che aveva saputo da Rooker. Ma questo non cambiava le cose.
«Qualunque cosa tu abbia detto o non detto, l'accordo si basava sul fatto che tu ci avresti aiutato ad arrestare Billy Ryan...»
«Ora che lui è morto,» intervenne Holland «la tua collaborazione è diventata inutile.»
«Voglio parlare con Tughan.»
«Puoi parlare con chi ti pare» disse Thorne. «Io sono stufo di ascoltarti.» Prese la giacca di pelle appesa allo schienale della sedia.
Rooker picchiò il palmo della mano sul tavolo, in un gesto più di frustrazione che di rabbia. «Io devo uscire. Ho bisogno di uscire di qui.»
«Uscirai presto» disse Holland.
Rooker parlò come se avesse in bocca un sapore amaro. «No. Non tanto presto. Senza la vostra approvazione il Comitato Discrezionale non mi farà mai uscire. Quei bastardi vogliono vedermi morire qui dentro.»
«Prima o poi uscirai» disse Thorne. «Le cose buone si apprezzano di più quando si fanno attendere.» Cercò di guardare Rooker negli occhi, ma il vecchio detenuto spostava lo sguardo qua e là come un topo in trappola. «Pensa positivo: ora non devi più preoccuparti che Billy Ryan paghi qualcuno per farti ammazzare.»
«Voi non ve ne preoccuperete di certo» ribatté Broker.
Holland si alzò e spinse la sedia sotto il tavolo. «Avrai ancora abbastanza tempo per fare qualcosa di utile» disse. «Perché non prendi una laurea breve, per esempio? Potresti uscire di qui con un titolo...»
Rooker mormorò una sfilza di imprecazioni. Prese la tabacchiera e ci affondò dentro le dita.
«Perché sei tanto ansioso di uscire, Rooker?» chiese Thorne. «Hai un malloppo nascosto da qualche parte?»
«L'ho già detto, il perché.»
«Oh, certo, una storia commovente sul nipote che gioca a pallone.»
«Vaffanculo, Thorne.»
«Non si sa mai, Gordon. Magari, se tutti e due evitate di farvi male, forse uscirai in tempo per vederlo giocare nella Coppa d'Inghilterra. Anche se, giocando nel West Ham, sarà un po' difficile che ci arrivi.»
Il motociclista attese con il motore al minimo, aspettando il momento di andare.
Una serie di pensieri futili continuavano a intromettersi nell'orizzonte bianco della sua mente. C'era bisogno di lasciare da parte i soldi per le divise scolastiche, che non erano affatto economiche. Il pacchetto per le Maldive includeva nel prezzo anche gli alcolici? Avrebbe dovuto controllare. La cosa poteva fare una notevole differenza.
Lasciò passare una macchina, poi un'altra. Infine partì, accelerò e fece un'ampia inversione a U. Si fermò davanti a una lavanderia a secco, due porte prima del posto che doveva visitare. Poi in quindici secondi compì le mosse che aveva ripetuto a mente decine di volte nelle ultime ore.
Mise la moto sul cavalletto, senza spegnere il motore.
Aprì il portaoggetti sul retro e afferrò la pistola con il calcio gommato.
Cominciò a camminare, rapidamente ma non troppo, verso l'ufficio della compagnia di taxi, ed entrò dalla porta aperta.
Arrivò al centro della stanza ancora prima che l'uomo dietro il banco alzasse gli occhi e vedesse la pistola. Un tipo seduto in un angolo abbassò il giornale e urlò. Anche Hassan Zarif urlò quando il proiettile lo colpì attraversandolo. Lo spruzzo di sangue sul calendario sembrò persino troppo drammatico, a paragone del sibilo smorzato della pistola.
Il motociclista sparò ancora e Zarif cadde all'indietro, finendo dietro il banco.
Il motociclista fece un passo avanti per controllare che il suo bersaglio fosse morto. In quel momento la porta a destra del bancone si spalancò e Tan Zarif aprì il fuoco. Il proiettile centrò il visore del casco. Mentre un passante sul marciapiede lasciava cadere a terra la spesa e gli altri si allontanavano correndo, il motociclista in tuta di pelle si afflosciò con un lieve tonfo sul linoleum.
Per qualche secondo nel piccolo ufficio risuonò solo l'eco dello sparo senza silenziatore, più forte anche del rumore di un autobus che passò davanti alla porta, diretto verso Turnpike Lane.
Tan Zarif urlò un ordine all'uomo in poltrona, il quale saltò in piedi e corse nel corridoio che portava sul retro dell'ufficio. Poi Zarif scavalcò il killer. Il buco frastagliato nel visore e il sangue che scorreva da sotto il collo imbottito del casco, non lasciavano dubbi sul fatto che fosse già cadavere. Ma mentre l'uomo che era corso fuori riappariva e si chinava sulla figura insanguinata di Hassan, Tan Zarif vuotò ugualmente tutto il caricatore nel petto del motociclista.
La prima parte del viaggio era stata piacevole. Avevano attraversato rapidamente la campagna del Wiltshire e dell'Hampshire, ma non era mancato loro il tempo di godersi il paesaggio. Tuttavia, una volta imboccata la M3, il traffico era diventato frustrante. Si arrancava a meno di settanta all'ora su tutte e tre le corsie.
Thorne procedeva sulla corsia di sorpasso, imprecando contro le auto davanti che non si toglievano di mezzo. Non gli venne mai in mente che quelli alle sue spalle potessero dire lo stesso di lui.
Ormai la primavera era iniziata da un paio di settimane, e faceva già caldo. La ventola della BMW sputava tutta l'aria che poteva, ma anche in maniche di camicia nell'auto si soffocava.
Thorne si mise a canticchiare. Allungò una mano ad abbassare il volume del primo album degli Highwaymen e chiese: «Puoi ripetere?».
«La macchina» disse Holland, sventolandosi con gesti teatrali. «Pensa ancora che sia stata una buona idea?»
Thorne scrollò le spalle, come se il fatto che fossero praticamente incollati ai sedili di pelle non avesse nessuna importanza. «Quando è stata costruita, i condizionatori non esistevano. È il prezzo che bisogna pagare per una vettura d'epoca.»
«Meno male che quando è stata costruita esisteva già il volante...»
«Molto divertente, Dave.»
«Lei sa che con quello che paga per mantenerla in funzione potrebbe benissimo comprarsi una macchina nuova con l'aria condizionata, vero?»
Thorne non rispose. Lampeggiò per segnalare a un Ford Transit che lo precedeva di spostarsi, e batté il palmo sul volante vedendo che il furgone lo ignorava.
«Rooker non mi suscita nessuna simpatia» disse Holland.
«Non mi sorprende, visto che tu sei uno dei migliori agenti della polizia di Londra e lui si guadagna da vivere ammazzando la gente. Anche se è vero che ho incontrato assassini con cui avrei volentieri bevuto una birra, e poliziotti che avrei picchiato a morte con il sorriso sulle labbra.»
«Certo, ma Rooker è proprio uno stronzo, in qualunque modo lo si consideri.»
«Naturalmente avrai capito che definendoti "uno dei migliori agenti" intendevo fare dell'ironia.»
Holland aprì di qualche centimetro il finestrino e voltò la faccia verso l'aria. «Naturalmente.»
«Rooker si sforzava di essere più simpatico quando pensava che io avessi qualcosa da offrirgli. E probabilmente ora dice lo stesso di me.»
Thorne si spostò nella corsia centrale, ma non riuscì comunque a superare il Transit. Dietro il furgone c'era un adesivo che diceva: Come guido? Thorne fu tentato di chiamare il numero di telefono scritto sotto e vomitare insulti a chiunque avesse risposto.
«Mi parli degli assassini con cui andava d'accordo» disse Holland.
Thorne gettò un'occhiata al retrovisore. Vide il serpente di macchine che si snodava alle sue spalle. Pensò a un uomo di nome Martin Palmer. Un uomo che in ultima analisi, uccideva perché aveva paura di non farlo. Aveva strangolato e pugnalato vittime innocenti, e il suo tentativo di redimersi, alla fine, gli era costato caro.
Palmer aveva cambiato il pensiero, e forse anche il viso, di Thorne in modo irreversibile. Non poteva dire di essere andato "d'accordo" con Martin Palmer. Lo disprezzava, eppure provava per lui anche compassione e tristezza, vedendo l'uomo che sarebbe potuto diventare, se non fosse stato un assassino.
Poi c'era stato il caso Foley, l'anno prima...
Gli assassini con cui andava d'accordo...
«Non saprei da dove cominciare» disse Thorne. «Dennis Nielsen era un tipo simpatico, se arrivavi a conoscerlo bene. E Fred West era divertente. Una volta, mentre giocavo a freccette con Harold Shipman...»
Holland lasciò andare un lungo sospiro. «Se ha intenzione di provare a essere spiritoso, gradirei che alzasse di nuovo il volume dello stereo.»
Continuarono ad avanzare, quasi mai a una velocità tale da consentire l'uso delle marce alte. La noia per poco non si trasformò in dramma quando Thorne si distrasse a guardare un gheppio in volo e per un pelo non tamponò un'Audi.
«Come stanno Sophie e la bambina?» chiese a un tratto.
«Bene, grazie.»
«Quanti mesi ha, adesso?»
«Quasi sette. Stiamo finalmente cominciando a riprenderci un po' della nostra vita.»
Thorne scosse la testa senza fare commenti. Quello era un argomento che non conosceva affatto.
«Non viviamo più nel panico» disse Holland. «Cioè, siamo sempre spaventati ed esausti, ma ora sappiamo quello che stiamo facendo.» Fece una pausa, poi aggiunse: «Sophie in realtà l'ha sempre saputo. Diciamo che ora io so più o meno quello che sto facendo. Dovrebbe venire a vederla, un giorno...».
«Quindi ora ti sei tranquillizzato all'idea di essere papà» disse Thorne. Ricordava una conversazione dell'estate passata, proprio il giorno in cui lui aveva comprato la BMW. Holland era ubriaco, e gli aveva confessato di essere terrorizzato. Aveva paura di provare rancore contro la figlia, quando fosse nata, paura che Sophie lo costringesse a scegliere tra la bambina e il lavoro.
«Sì, le mie erano paure stupide.» Holland si voltò verso di lui, ridendo. «Chloe è bellissima.»
«Mi fa piacere.»
«Le ultime due settimane sono state perfette» disse Holland. «Una pausa per ricaricare le batterie. L'unico problema è che Sophie si sta abituando troppo a vedermi in giro per casa...»
Tutti i membri della squadra avevano avuto la possibilità di passare più tempo con i loro cari, dopo la morte di Billy Ryan. Il lavoro ultimamente consisteva in una montagna di scartoffie da riempire, in attesa che gli altri, in particolare Stephen Ryan, facessero una mossa.
«Crede che Stephen Ryan tenterà qualcosa?» chiese Holland.
Thorne emise un sospiro di soddisfazione vedendo che il Transit finalmente metteva la freccia e rientrava nella corsia centrale. Accelerò e lo superò, avanzando di dieci inutili metri.
Non sapeva che a soli quindici chilometri di distanza, a Green Lanes, degli agenti di polizia stavano isolando con il nastro di plastica il marciapiede davanti a un'agenzia di taxi, mentre altri raccoglievano le deposizioni dei testimoni, e Phil Hendricks era già in cammino verso la scena del delitto.
Stephen Ryan aveva fatto la sua mossa.
CAPITOLO 25
Mercoledì mattina, sala di pronto intervento. Due giorni dopo la sparatoria nell'ufficio della compagnia di taxi dei fratelli Zarif. La squadra era di nuovo sotto adrenalina...
«Abbiamo ricevuto notizie dall'ufficio immigrazione» disse Brigstocke. «Pensano di aver trovato altri occupanti di quel TIR. Dico "pensano" perché le persone in questione non hanno detto molto.»
«Dove?» chiese Thorne.
Brigstocke gettò un'occhiata al foglio che aveva in mano. «Un autolavaggio di Hackney. Uno di quei posti dove piombano in cinque o sei sulla tua macchina, armati di spugne, stracci e aspirapolvere...»
Stone annuì. «Ce n'è uno vicino a casa mia. Ti fanno interno ed esterno per dieci sterline. Più la mancia...»
«Stanno interrogando il padrone» continuò Brigstocke. «E lui, sorpresa, sorpresa, dice di non sapere nulla. Finiremo per trovare un collegamento con la gang di Ryan, ma non credo che sarà nulla di diverso dagli altri...»
Un uomo e una donna, sospettati di provenire dal camion sequestrato, erano stati fermati la settimana prima a Tottenham, dove lavoravano nella cucina di un ristorante. Altri due a Manor House. In entrambi i casi, tutte le persone coinvolte soffrivano di amnesia fulminante. Erano stati effettuati degli arresti, ma non avevano portato ad altro che a una multa per i gestori delle attività e a un ordine di espulsione per gli immigrati clandestini. Non era emerso nulla che potesse incriminare il clan di Ryan o quello degli Zarif.
Tughan disse: «Passiamo alla sparatoria di Green Lanes. Sam, cosa dicono i testimoni?».
Karim scosse la testa. «Non abbiamo ancora trovato qualcuno che contraddica la versione di Memet Zarif. Una coppia ha persino notato un uomo armato, con il viso coperto da un passamontagna, che è fuggito dopo la sparatoria.»
«Certo, come no» disse Thorne.
Holland rise. «Sicuramente a Natale riceveranno un bel regalo...»
Secondo Memet Zarif, l'uomo in tuta di pelle che aveva ferito Hassan Zarif era stato a sua volta ucciso da un misterioso secondo assassino, che lo aveva seguito nell'ufficio ed era fuggito dopo avergli sparato. La polizia sapeva perfettamente che il secondo pistolero doveva essere lo stesso Memet o il fratello Tan, ma senza arma del delitto e senza testimoni, era impossibile provarlo.
«Almeno abbiamo appurato qualcosa sul morto» disse Tughan. «Si chiama Donai Jackson, anni trentatré. Un noto "collaboratore" di Stephen Ryan.»
Nessuno si mostrò sorpreso.
«Potrebbe essere l'assassino degli Izzigil?» chiese Stone. «È la stessa arma...»
Tughan aprì la bocca, ma Thorne lo precedette. «Impossibile» disse. «Gli Izzigil sono stati uccisi da un professionista, con precisione clinica. Questo idiota si è fatto uccidere senza neppure portare a termine la missione. E in quanto all'arma, si tratta solo dello stesso tipo di pistola.»
«L'ispettore Thorne probabilmente ha ragione» disse Tughan. «Nell'ambiente dicono che Jackson era nuovo, nel campo degli omicidi a contratto. Ha avuto il lavoro perché era amico di Stephen, e perché Stephen vuole differenziarsi dal padre. Inoltre, sempre secondo i nostri informatori, Jackson era alquanto economico.»
«Avrei pensato che scegliere un killer decente fosse fondamentale» disse Yvonne Kitson.
Ci furono frasi di assenso, tutte piuttosto ironiche.
«Ryan non ha sentito parlare di falsa economia?»
«Al giorno d'oggi è difficile trovare personale affidabile.»
«Quello che ha risparmiato lo pagherà in seguito» disse Thorne. «L'omicidio che non è riuscito a portare a termine gli costerà parecchio.»
«Crede che la faccenda rischi di esplodergli tra le mani?» chiese Holland.
«Credo che Ryan non avrebbe dovuto badare a spese,» disse Thorne, scherzando solo a metà «e assumere tre killer. Uno per ogni fratello. Poteva sperare di mettere fine alla faida solo uccidendo tutti e tre gli Zarif.»
«Mi sembra arrivato il momento di annunciare,» disse Tughan «che la nostra operazione congiunta si prenderà un periodo di pausa.»
Thorne lo fissò, credendo che scherzasse. «Cosa?»
«Abbiamo avuto dei buoni risultati, ma i capi non credono che potremo ottenere ancora molto. Quindi chiudiamo qui.»
Thorne fissò Brigstocke, incredulo. Lo sguardo che ricevette in risposta gli disse che era inutile discutere. La decisione era già stata presa.
«Billy Ryan, uno dei nostri obiettivi principali, è stato ucciso. D'ora in poi potremo ottenere qualche risultato solo attraverso l'ufficio Immigrazione e i ragazzi della dogana. Ci sono ancora alcuni capi sciolti e certamente effettueremo qualche altro arresto, ma il costo dell'operazione, in termini di risorse, non è più giustificato dai possibili risultati.»
«Come possiamo tirarcene fuori adesso?» chiese Thorne. «Dopo quello che è appena accaduto?»
Tughan stava già infilando le sue carte nella borsa. «Questo è stato l'ultimo urrà per Stephen Ryan. Ha combinato un casino e alla fine perderà questa guerra. Poi le cose si sistemeranno.»
«Nel frattempo, noi guardiamo dall'altra parte, riempiamo delle scartoffie e aspettiamo che si uccidano a vicenda...»
Tughan si voltò verso Brigstocke. «Desidero ringraziare Russell e la sua squadra per la collaborazione e l'ospitalità. Abbiamo fatto un buon lavoro, insieme. Ma sono certo che sarete felici di riavere i vostri uffici.»
Ci fu qualche risata priva di entusiasmo.
«Più tardi andremo a bere qualcosa insieme, in modo da poterci salutare come si deve. Comunque, noi non spariremo immediatamente. Come ho detto, ci sono ancora alcuni capi sciolti...»
Tughan si diresse verso la porta.
Brigstocke si schiarì la gola, e si incamminò dietro di lui. Prima di uscire si voltò e disse: «Più tardi, in collaborazione con il sergente Karim, assegnerò i casi da seguire». Sembrava un allenatore di terza categoria che cercasse di pompare la squadra, mentre perdeva sei a zero alla fine del primo tempo. «Ci sono anche molti criminali disorganizzati da catturare...»
Quando ebbe lasciato la stanza, per alcuni secondi nessuno si mosse. Poi iniziarono i commenti, gli spostamenti apparentemente casuali, e poco dopo la squadra si trovò separata in due metà distinte.
I membri della Squadra 3 dell'Unità per i Reati Gravi (Ovest), restarono in silenzio un po' più a lungo dei loro colleghi dell'SO7. Fu Yvonne Kitson a rompere il ghiaccio: «Come va la filosofia, Andy? Questa settimana tocca a Nietzsche o a Jean-Paul Sartre?».
Stone cercò di fare l'indifferente, ma arrossì. «Che cosa?»
«È tutto a posto, Andy» disse Kitson. «Tutti gli uomini hanno i loro trucchi. E le donne hanno i loro.»
Stone si strinse nelle spalle, sorridendo. «Funziona...»
«Naturalmente, ognuno deve usare quello che ha» disse Holland, appoggiandosi a una scrivania. «Solo che qualcuno preferisce ancora affidarsi al fascino e alla bellezza.»
«Per me funziona il denaro» disse Karim. «E a volte anche le suppliche.»
«Supplicare è una tattica eccellente» disse Kitson.
Holland guardò Thorne, che si teneva un po' a distanza, ancora scioccato dalla notizia che avevano ricevuto.
«E lei, signore?» chiese Holland. «Quali trucchi usa?»
«Sono certo,» disse Stone ridendo «che il dottor Hendricks può procurarle del Roipnol da usare sulle sue vittime, in casi disperati...»
Ma Thorne si stava già dirigendo verso la porta.
«Non potresti essere prevedibile, almeno una volta nella vita?» disse Tughan. «Credevo che saresti stato felice di non vedermi più.»
«Ascolta, noi non ci sopportiamo» disse Thorne. «E nessuno ci perde il sonno. Devo ammettere che qualche volta ho parlato solo per irritarti. Ma questo,» Thorne indicò la sala di pronto intervento, a significare le cose che vi erano appena state dette «è veramente stupido. So che tu non sei personalmente responsabile della decisione.»
«Infatti. Ma la condivido.»
«"Il perché non è compito nostro." È questo il motivo?»
«È l'unico modo di arrivare da qualche parte.»
«Nel senso della carriera, intendi?»
«Pensa quello che ti pare.»
Thorne si appoggiò allo stipite della porta. Sulla parete di fronte, c'era una bacheca piena di newsletter e fotocopie di grafici senza senso. Un depliant che invitava a conoscere l'AIDS, un titolo ritagliato dallo «Standard» che diceva: «Delitti a mano armata nella capitale ormai fuori controllo». Più annunci di roba usata in vendita: un completo di Paul Smith, un motorino, una play station...
«Non capisco perché ora» disse Thorne. «Dopo quello che...»
«Credo che la decisione fosse già stata presa prima della sparatoria nell'agenzia di taxi.»
«E nessuno ci ha ripensato dopo?»
«Sembra di no.»
Richards, l'uomo dei cerchi concentrici, si avvicinò con in mano un dossier che sembrava molto importante, a giudicare dalla sua faccia. Tughan lo prese senza una parola. Dopo che il gallese si fu allontanato, Thorne disse: «Quando abbiamo trovato il conducente del camion e gli altri due morti in quel bosco, tu eri davvero incazzato. "Questa guerra deve essere fermata" hai detto. Eri incazzato per gli Izzigil, per Marcus Moloney. Adesso non fingere che non fosse così».
Tughan non disse nulla, ma strinse con più forza il dossier che aveva in mano.
«Come fanno queste persone a decidere quello che noi dobbiamo fare?» chiese Thorne. «Quelli che dobbiamo colpire e quelli che dobbiamo ignorare? Come fanno a decidere la politica da seguire? Tirano i dadi ogni mattina? Scelgono una carta...?»
Tughan parlò rivolto verso la bacheca. «Assegnano gli uomini e i fondi a imprese che secondo loro possono avere successo. Non si tratta di fisica nucleare, Thorne...»
«Quindi qual è l'impresa importante che hanno tirato fuori dal cappello, stavolta?»
«La prostituzione. Vogliono mettere un freno alle gang straniere che si stanno spartendo il territorio: russi, albanesi, lituani... Il gioco si sta facendo molto duro, e quando una banda vuole danneggiarne un'altra, sceglie il bersaglio più facile: uccide le ragazze...»
Thorne scrollò le spalle. «Questo significa che lasciamo Memet Zarif e Stephen Ryan liberi di farsi gli affari loro?»
«Nessuno sta dicendo questo.»
«E in quanto a Rooker...?»
«Sarà rilasciato all'inizio della prossima settimana.»
«Lo immaginavo» disse Thorne. «Lui è uno di quei capi sciolti di cui parlavi.»
«Rooker può darci dei buoni nomi.»
«In che senso "buoni"?»
«Ascolta, ci sono risultati migliori, ma ce ne sono anche di peggiori. In questo momento abbiamo deciso di accontentarci di quello che abbiamo.» Persino il sorriso sarcastico di Thorne non riuscì a innervosire Tughan, il quale continuò: «Tu segui il calcio, no? Come ti sentiresti se la tua squadra giocasse in modo perfetto per tutta la stagione e vincesse tutto?».
Se Thorne avesse voluto alleggerire l'atmosfera, avrebbe potuto chiedergli se aveva mai visto giocare gli Spurs. Invece disse: «Non ti offendi se non partecipo agli addii al pub, vero?».
«Mi sarei stupito di vederti.»
Thorne fece un passo in direzione del corridoio, ma Tughan continuò a parlare.
«Io sono come te» disse. «Anch'io voglio prenderli tutti. Solo che a volte... no, quasi sempre, devi accontentarti di arrestarne solo alcuni. È vero, non sempre si tratta delle persone giuste, ma cosa possiamo farci?»
Thorne continuò ad allontanarsi, pensando: "No, non sei come me".
Non aveva trovato nulla che gli piacesse a Kentish Town, e a Highgate Village non gli era andata molto meglio: c'erano soltanto negozi di antiquariato e poco altro. Ad Hampstead aveva girato mezz'ora senza riuscire a trovare parcheggio, e ora stava tentando la fortuna ad Archway, dove il parcheggio non era difficile da trovare ma tutto il resto sì.
Dopo aver pensato a lungo cosa poteva regalare a una bambina di sette mesi, Thorne aveva deciso di prenderle un vestitino. Quindi non capiva perché stava vagando lungo le corsie di una grande farmacia. Certo, non si trattava di una farmacia ordinaria, come aveva scoperto qualche mese prima. Oltre alle medicine, infatti, vendeva confezioni industriali di arachidi scadute, olio per motori e altre cose che Thorne non aveva mai visto in una farmacia. Infine, era incredibilmente economica, come se il gestore volesse realizzare un rapido profitto su merce che gli era stata consegnata per sbaglio. L'unico motivo per cui Thorne non trovava tutto ciò troppo strano, era che in quella zona stavano prendendo piede molti negozi del genere.
Forse i negozietti non potevano permettersi di specializzarsi. O forse i gestori cercavano di prendere due piccioni con una fava. Per esempio, ne conosceva uno che vendeva frutta, verdure, e... lana. E un altro che in vetrina esponeva la scritta: "Pasticceria e cambiavalute". Thorne non riusciva proprio a immaginare che qualcuno potesse chiedere cose tipo: «Cinquanta sterline in escudos, per favore, e una fetta di torta di carote», ed era certo che quel negozio servisse da copertura per qualcosa di losco. Ne ricordava uno dalle parti di Nag's Head, i cui gestori irlandesi non sembravano molto interessati alle vendite. Nessuno era rimasto troppo sorpreso, quando lo avevano chiuso, dopo il cessate il fuoco proclamato dall'IRA.
Era facile per Thorne immaginare i luoghi e le persone diversi da quello che sembravano. Nel bene e nel male, quello era il suo lavoro.
Finalmente, girando tra gli scaffali della farmacia, si rese conto che un paio di confezioni di pannolini usa e getta, benché utili, non sarebbero state un gran regalo. Dopo aver scambiato qualche parola con la donna dietro il banco, che gli piaceva parecchio, Thorne uscì in strada.
Mentre la giornata lavorativa si avviava verso la fine, restò immobile per un paio di minuti a osservare i passanti. Non poteva dire di avere grandi ideali riguardo al fatto di servirli. E non immaginava neppure per un secondo che la polizia potesse realmente proteggerli.
Ma doveva schierarsi con quelli, tra loro, che stavano al di qua di un confine...
Sapeva, per esperienza, che alcuni di quei passanti avrebbero fatto del male a un bambino senza neppure pensarci. Altri avrebbero violentato, ferito o ucciso per ottenere ciò che volevano.
Era un fatto terribile nella sua semplicità.
Ma la maggior parte di loro avrebbero saputo dove fermarsi. Dove tracciare una linea. Molti evadevano le tasse, alzavano la voce in famiglia, o a volte tornavano a casa in macchina dopo aver bevuto un bicchiere di troppo. Ma non andavano oltre.
Queste erano le persone con cui Thorne sentiva di essere schierato.
La loro vita veniva influenzata ogni giorno dai Ryan e dagli Zarif del mondo. Da coloro che superavano la linea del comportamento accettabile per amore del profitto. Pagavano un taxi, o un hamburger, e non sapevano di finanziare in quel modo profitti illeciti. Alcuni perdevano la vita solo per essersi trovati nel posto sbagliato al momento sbagliato. Altri perdevano un figlio per colpa della droga, e altri ancora perdevano la casa, o il negozio, per essersi affidati a degli strozzini.
Erano impiegati di banca, autisti di autobus, commercianti. Avevano figli, e credevano in Dio o nella televisione. E non meritavano che la loro vita venisse sporcata dai criminali solo perché a Thorne e alla sua squadra era stato detto di lasciar perdere.
Thorne pensò alla farmacista che gli piaceva, al tizio che abitava al piano di sopra, all'uomo che gli passava davanti in quel momento, trascinando un cane al guinzaglio. Pensò alla donna che parlava di Gesù ai clienti del supermercato e alla guardia giurata che l'aveva mandata via.
Immagino che ci siano delitti peggiori.
La vita di quelle persone era toccata troppo spesso da mani sporche...
La farmacista uscì dal negozio, e Thorne restò a guardarla mentre premeva il bottone per abbassare la saracinesca. Poi si ricordò che il Woolworth's poco più avanti vendeva anche vestitini per bebè. Si avviò da quella parte, sperando di trovarlo ancora aperto.
CAPITOLO 26
Carol Chamberlain restò a osservare il marito che cucinava. Le piaceva l'attenzione che dedicava ai particolari e alla routine. Indossava sempre un grembiule blu a strisce, sia che stesse cucinando della carne in umido, sia che preparasse un semplice toast al formaggio, e persino il modo con cui rimestava il sugo sembrava avere un ritmo preciso.
Jack si voltò e sorrise. «Tra una ventina di minuti sarà pronto, amore.»
Lei annuì e tornò in soggiorno.
La carta da parati era la riproduzione di una tappezzeria antica. La moquette color vino era spessa e pulitissima. Carol si lasciò cadere sul divano e cercò di ricordare se era quella la stanza che aveva sempre sognato. La stanza a cui pensava mentre sedeva in bugigattoli fumosi, cercando di estorcere una confessione a qualche assassino.
Fissò l'acquarello dalla cornice troppo elaborata sopra il caminetto. Somigliava a qualcosa che aveva visto spesso, quando ancora lavorava: le parti del corpo di un cadavere riprese da diversi angoli visuali.
Cosa aveva detto Thorne?
Billy Ryan. Jessica Clarke. È arrivato il momento di non pensarci più.
Chamberlain ci stava provando, ma le sudavano le mani.
Ryan tra poco sarebbe diventato solo un nome su una lapide. Ma sapeva che Jessica sarebbe restata sempre con lei.
E l'uomo che l'aveva guardata dalla strada, mentre le fiamme accentuavano le ombre sul suo viso, non sarebbe mai stato preso. Chamberlain aveva deciso, pur senza prove, che era stato lui ad avvicinare la fiamma dell'accendino alla gonna di Jessica, tanti anni prima.
In assenza di fatti certi, l'immaginazione riempiva gli spazi vuoti.
Jack disse, dalla cucina: «Apriamo una bottiglia di vino?».
"Merda" pensò Chamberlain.
«Ma sì» rispose. «Lasciamoci un po' andare...»
Il padre di Thorne chiamò mentre lui era ancora da Woolworth's.
«Sono nei guai» disse subito.
«Cosa?»
L'espressione preoccupata sul viso di Thorne sembrò incuriosire la ragazza alla cassa.
«Si tratta di nomi da scrivere su un... una di quelle cose che la gente legge... come cazzo si chiama... un libro! Ci sono una serie di domande che mi stanno facendo ammattire.»
«Papà, posso richiamarti tra due...»
«Sono restato sveglio fino alle tre del mattino, cercando di ricordare questi nomi. Ho una penna accanto al letto, l'hai vista quando sei venuto qui, ricordi?»
Thorne notò che la ragazza alla cassa fissava l'orologio. Era già passata l'ora di chiusura e non c'erano altri clienti. Lui aveva ancora in mano due tutine, senza riuscire a decidere quale acquistare.
Sorrise alla ragazza: «Mi scusi...».
«Ricordi di aver visto la penna, sì o no?» gridò suo padre al telefono.
La ragazza scambiò un'occhiata con un individuo in piedi accanto alle porte, in attesa di chiudere.
«Le prendo tutte e due» disse Thorne. Diede i vestiti alla ragazza e tornò a parlare con il padre. «Sì, me ne ricordo. È carina...»
«Bene, adesso non funziona più. Ho bisogno di un... pezzo da mettere dentro. Cazzo, insomma, hai capito, quella cosa piena d'inchiostro che si sostituisce quando è vuota...»
«Una ricarica.»
«Esatto. Devo andare in cartoleria. Ce n'è una in centro.»
La ragazza tese una mano e Thorne le diede una banconota da venti. «Papà, ti chiamo quando arrivo a casa, va bene? Posso cercare su Internet tutte le risposte di cui hai bisogno.»
«Adesso dove sei?»
«Da Woolworth's.»
«Come l'assassino...»
«Cosa?»
«Fu l'assassino di Woolworth's a uccidere Sutcliffe nel carcere di Broadmoor» disse suo padre. «Lo chiamavano così perché aveva ucciso il direttore di una filiale di Woolworth's. Poi, quando era in cella con Sutcliffe lo Squartatore, lo pugnalò in un occhio. Con una penna, pensa. Una fottuta penna!»
«Papà...»
«Abbiamo comprato la tua bicicletta da Woolworth's, nel 1973. Non ricordo chi era l'attore che faceva la pubblicità natalizia, quell'anno. Sono sempre delle star, sai? E lo slogan è sempre lo stesso: "Questa è la meraviglia di Woolworth's!" cantato con una melodia irritante. Sono certo che quel bastardo di Sutcliffe non la cantava, mentre la penna gli entrava nell'occhio.» Poi Jim Thorne cominciò a cantare: «Questa è la meraviglia di Woolworth's...».
La cassiera praticamente gettò il resto nella mano di Thorne. La guardia giurata gli tenne la porta aperta con uno sguardo di fuoco.
«...questa è la meraviglia del buon vecchio Woolworth's...»
Thorne ascoltò senza più interrompere.
Thorne fissò il monitor, con gli occhi arrossati dopo un'ora di ricerche su Internet. Annotò il nome di un attore che non aveva mai sentito nominare, e allungò una mano verso la tazza di caffè. Aveva comprato quel vecchio computer iMac usato, l'anno prima, e l'aveva sistemato su un tavolo sotto la finestra del soggiorno. Il lieve ronzio proveniente dal monitor gli fece pensare a ciò che succedeva nella testa di suo padre.
Chissà se le parole si perdevano da qualche parte tra il cervello e la bocca? Se suo padre poteva udire la parola che cercava nella sua testa, se poteva vederla,la frustrazione doveva essere terribile. Immaginò il padre come una figura minuscola e impotente che si agitava nel suo stesso cervello. Lo immaginò accanto a un paio di enormi altoparlanti che gridavano a tutto volume la parola che lui non riusciva a pronunciare, scritta a lettere luminose alte dieci metri.
Le imprecazioni, le urla e un po' di imbarazzo in pubblico erano il minimo che ci si potesse aspettare, in circostanze del genere. Cristo, Thorne era sorpreso che il padre non si fosse ancora spaccato la testa contro un muro, per poi toccare con le dita la materia grigia che ne colava fuori, alla ricerca della parola che voleva...
Scaricò un'altra pagina e si segnò i nomi dei dieci edifici più alti del mondo. La mattina dopo avrebbe chiamato suo padre, comunicandogli tutte le inutili informazioni che gli aveva chiesto di trovargli.
Thorne bevve un sorso di caffè, e pensò alla squadra che quella sera era andata a festeggiare all'Oak. Tughan sicuramente aveva fatto un discorso, e tutti avevano brindato ai risultati ottenuti, o almeno a quei risultati dei quali gli era stato ordinato di accontentarsi.
Immaginò altri brindisi, fatti da quelli che avevano davvero qualcosa da festeggiare: e cioè che per il momento la polizia li avrebbe lasciati stare.
Thorne aveva in mano solo una tazza di caffè tiepido, ma la sollevò in un brindisi personale.
Ad alcuni poliziotti...
Allungò una mano per spegnere il computer, ma ci ripensò e digitò "pelle immortale" nel motore di ricerca. Dopo un po' trovò un sito che conteneva tutti i particolari di cui gli aveva parlato Ian Clarke.
La pagina era piena di informazioni scritte in caratteri piccoli.
Thorne chiuse gli occhi e sognò per qualche minuto buchi nella carne che guarivano, e tagli a forma di X che svanivano come parole scritte sulla sabbia... Si svegliò di soprassalto e vide che il computer si era bloccato. Imprecò a bassa voce, poi staccò la spina e se ne andò a letto.
CAPITOLO 27
La BMW con dentro Memet e Hassan Zarif si allontanò dal semaforo della stazione di Stoke Newington e accelerò attraversando l'incrocio con Stamford Hill Road.
Thorne li seguì, mantenendo tre auto tra la loro e la sua. Non aveva ancora capito dove erano diretti. Andavano nella direzione dell'agenzia di taxi e del ristorante, ma seguendo una rotta alquanto strana. Erano un po' troppo a sud.
Thorne passò a sua volta il semaforo e aumentò il volume dello stereo. Dovunque fossero diretti i fratelli Zarif, li avrebbe seguiti.
Era andato a cercarli all'agenzia di taxi, ma aveva trovato solo l'individuo dall'aria cupa che aveva visto durante la sua prima visita. Era uscito mentre l'uomo scatarrava rumorosamente.
Era rimasto per qualche secondo sul marciapiede, cercando di decidere cosa fare, e un attimo dopo davanti a lui si era fermata una Omega nera della compagnia Zarif. L'autista gli aveva chiesto se voleva un passaggio da qualche parte. Thorne aveva scosso la testa e si era diretto verso la propria macchina.
Attraversarono Seven Sisters Road, dirigendosi di nuovo a nord.
Chissà se sapevano di essere seguiti. L'auto di Thorne aveva una forma e un colore che non passavano inosservati, e visto che i fratelli Zarif sapevano dove abitava, era probabile che conoscessero anche la sua macchina. Comunque non importava. Si sarebbero fermati da qualche parte, e Thorne voleva solo scambiare qualche parola con loro.
Quando aveva iniziato a seguirli, erano andati prima a casa di Memet, una villetta a schiera a Clapton, con vista sul fiume Lea.
Thorne aveva atteso per quaranta minuti, con un giornale in mano. Poi la porta si era aperta e ne era uscito Hassan Zarif, con un braccio al collo, unico segno visibile del proiettile che gli aveva spaccato la clavicola. Dietro di lui era apparso Memet, e Thorne si era diretto verso la strada laterale in cui aveva lasciato la macchina.
Appena aveva visto passare la BMW blu scuro, aveva ripreso a seguirla.
Si immisero nel traffico fitto di Stroud Green, dirigendosi verso Crouch End, una zona popolare tra gli artisti che non guadagnavano abbastanza per abitare a Highgate o ad Hampstead. Benché non ci fosse neppure la metropolitana, i prezzi degli immobili erano saliti parecchio negli ultimi anni, e il posto era pieno di ristoranti e bar di un certo tono, accanto a locali meno signorili: il negozio di riviste per adulti, il salone massaggi, la trattoria per operai...
La strada principale si biforcava davanti alla torre dell'orologio. Zarif prese a destra, e parcheggiò in divieto di sosta. Thorne lo superò e si diresse verso una strada laterale, mentre i fratelli scendevano e si dirigevano verso la porta di un locale.
L'insegna al neon con la scritta "sauna" era spenta, visto che erano le undici e mezza del mattino. Anche il sorriso della ragazza alla reception si spense non appena Thorne le mostrò il tesserino.
«Che rottura di palle» fu il suo unico commento.
Thorne attraversò la reception e spinse la porta che si trovava dal lato opposto. Per pigrizia o per paura, la ragazza non cercò di fermarlo.
Si trovò in una specie di salotto dall'arredamento consunto. I clienti probabilmente non ci facevano neppure caso, visto che lo sguardo veniva subito attratto dalle scene hard che si svolgevano sul televisore a grande schermo. In quel momento, una bionda in calzettoni stava facendo un entusiastico pompino a uno stallone riccioluto.
Hassan Zaríf era seduto su una poltrona rivestita di velluto. Era coperto da un accappatoio e sfogliava il «Daily Mirror» con l'unico braccio buono. Vedendo Thorne emise una specie di gemito.
«È un peccato che abbia un braccio ingessato» disse Thorne. «Altrimenti avrebbe potuto leggere e masturbarsi allo stesso tempo.»
Hassan, per nascondere la sua erezione, accavallò le gambe e chiuse meglio l'accappatoio sul petto. «Se è venuto per un trattamento gratuito, vedrò cosa posso fare» disse. «Sono certo che qui vengono parecchi poliziotti.»
Thorne prese un telecomando da un tavolino e spense il televisore. «Quel risucchio rende difficile concentrarsi» disse.
«Cosa vuole?»
«Questo è uno dei vostri?»
«Non capisco.»
«Questo posto. Fa parte dell'impero Zarif?»
Hassan sorrise. «No. È di proprietà di un nostro conoscente. Ma noi stiamo pensando di investire in qualcosa di simile...»
«Quindi la sua presenza qui è... cosa? Una ricerca di mercato?»
«Esatto. E se vuole arrestarmi faccia pure. Sarò felice di contribuire a farle fare la figura dello stupido.»
Thorne annuì. «E sarebbe felice se io venissi lì e le rompessi l'altro braccio? Sarebbe felice di doversi far pulire il culo da qualcun altro per un mesetto?»
Hassan spinse il mento in fuori e indicò il soffitto. Thorne alzò gli occhi e notò una minuscola telecamera.
«La sorprenderebbe sapere con quale facilità può perdersi un video» disse. Si diresse verso l'arco dall'altra parte della stanza, si appoggiò contro una colonna di plastica e guardò nel corridoio. Alla sua sinistra, c'era una fila di stanze, o meglio di "suite", come diceva il manifesto pubblicitario nella reception.
Thorne si voltò verso Hassan. Ormai pensava di aver capito come i tre fratelli si dividevano i compiti. Tan, il più giovane, era il duro dal brutto carattere. Hassan era quello che progettava nuovi affari e si occupava di nascondere il denaro. Thorne non aveva bisogno di parlare con nessuno dei due.
Indicò il corridoio. «Memet è in una di quelle stanze?» chiese.
«Immagino che ci abbia seguiti fin qui, perciò deve saperlo.»
«E lei sta aspettando il suo turno, come sempre. Giusto?» Hassan non disse nulla, ma serrò la mascella. Prima di entrare nel corridoio, Thorne riaccese il televisore, e la bionda riprese la sua performance.
«Questo è un classico» disse Thorne. «Ma non si preoccupi, non le dirò come finisce, nel caso sia la prima volta che lo vede...»
Rooker si rigirava la scheda telefonica tra le mani, aspettando che si liberasse il telefono. Aveva ancora parecchio credito, e prima di uscire pensava di scambiare la scheda con delle sigarette. Le carte telefoniche valevano come denaro contante, in prigione.
Negli ultimi due mesi aveva fatto più telefonate del solito. In passato, non aveva chiamato quasi nessuno. E nessuno aveva chiamato lui.
L'uomo davanti a lui imprecò e sbatté giù il ricevitore. Rooker evitò di guardarlo negli occhi e prese il suo posto. Inserì la carta e compose il numero.
«Sono io» disse non appena ricevette risposta.
«Fa' in fretta, sono occupato.»
«Sai che uscirò tra un paio di giorni...»
L'altro non disse nulla, in attesa di sapere cosa voleva Rooker da lui.
«Volevo solo conferma che il nostro accordo è sempre valido.»
Ci fu una risata soffocata. «Le cose sono cambiate parecchio.»
«Già. E tu ne hai tratto vantaggio.»
«Diciamo che non mi è andata male.»
«Mi sarei stupito del contrario. Adesso che la concorrenza è fuori dai piedi...» Rooker si schiarì la voce, assumendo un tono casuale. «Ascolta, mi trasferiranno da qualche altra parte. Non so ancora dove, ma appena avrò notizie più precise te lo farò sapere.»
Ci fu una lunga pausa, durante la quale Rooker udì la voce attutita dell'uomo con cui stava parlando rivolgersi a qualcun altro. Poi l'uomo tolse la mano dal microfono e disse: «Va bene. Spero che tutto vada come si deve.»
«Aspetta, voglio sapere se mi garantirai protezione.»
«Da chi dovrei proteggerti?»
«Da chiunque...» Rooker faceva fatica a controllarsi. Quella sembrava una ripetizione della conversazione che aveva avuto con Thorne. Incredibile...
«Non preoccuparti. Come hai detto tu, abbiamo un accordo.»
«Bene. Meno male.» Rooker vide il proprio sorriso riflesso nella piastra di metallo sopra il telefono. «Allora stavi solo scherzando, vero?»
«Certo...»
«Voglio dire, potrebbe accadere qualunque cosa, no? E il nostro accordo era che tu ti saresti occupato di me.»
«Puoi starne certo» disse l'uomo, prima di chiudere la comunicazione.
Quella che nella reception era descritta come la "Suite Vip" non era altro che una specie di grande bagno con un divano in un angolo. Le pareti erano coperte da pannelli di pino, e quasi tutto lo spazio disponibile era occupato da una vasca da idromassaggio in plastica rosa. Il televisore a parete, probabilmente programmato per mostrare lo stesso film che Hassan stava guardando in salotto, era spento. Del resto Memet Zarif non aveva bisogno di stimoli visivi: la ragazza che era nella vasca con lui si stava dando da fare con foga, anche se a livello manuale, invece che orale, e le sue tette al silicone galleggiavano come boe nell'acqua.
Appena vide Thorne, interruppe il lavoro. Memet le prese il polso e lo tirò di nuovo sott'acqua. «Continua» disse, senza distogliere lo sguardo dagli occhi di Thorne.
Per alcuni secondi nessuno fece un gran che. Poi la donna tirò via di nuovo la mano e uscì dall'acqua. Andò a infilarsi un accappatoio, mostrando senza timidezza la sua nudità striata di smagliature. Infilò i piedi in un paio di ciabatte e si voltò verso Memet Zarif. «Devo andare a chiamare qualcuno?»
Memet scosse la testa. Non sembrava minimamente preoccupato.
La donna guardò Thorne come cercando di decidere che tipo di merda fosse, solida o attaccaticcia.
«Sono un poliziotto o un delinquente?» disse Thorne. «O magari entrambe le cose? So soltanto che non è facile capirlo.» Indicò Memet con un cenno del capo. «Il tuo amico mi sta aiutando in un'indagine, quindi perché non te ne vai da qualche altra parte? E lavati le mani...»
La donna si sciolse i capelli, togliendo la pinza che li teneva raccolti in cima alla testa, e si diresse verso la porta. Passando accanto a Thorne sibilò: «Stronzo...».
«Grazie, altrettanto» disse lui.
Memet nel frattempo si era immerso del tutto. Thorne attese finché non vide la sua calvizie incipiente riemergere dall'acqua, poi disse: «Mi dispiace averti interrotto...».
«La ragazza ha ragione» disse Memet. «Lei è proprio uno stronzo.» L'accento fece sembrare l'insulto più duro nella sua bocca.
«Volevo solo dirle che abbiamo trovato un altro paio dei lettori DVD rubati da quel camion. Credevo le avrebbe fatto piacere. Questi due lavoravano uno in cucina, l'altro in un autolavaggio. Forse un giorno scopriremo anche da dove sono venuti. Lei che ne dice?»
«Buona fortuna.»
«Dov'è Tan?»
Memet si tolse l'acqua dagli occhi, con un grugnito interrogativo.
«Insomma, lei è qui, Hassan è fuori che aspetta il suo turno, da bravo ragazzo qual è. Io so che voi tre siete sempre insieme, perciò mi chiedevo dov'è il cucciolo della famiglia.»
«Mio fratello è in vacanza.»
«Ah, capisco.» Quindi quasi certamente Tan era quello che aveva piantato sei proiettili in corpo a Donai Jackson. Thorne non ne fu molto sorpreso. «Un desiderio improvviso di scomparire, eh? Con i viaggi last-minute si trovano ottime occasioni.»
«Tan era sconvolto, dopo quello che è successo.»
«Sono certo che la sparatoria nel vostro ufficio vi abbia traumatizzati tutti.»
Memet si scurì in viso. «Hassan per poco non è rimasto ucciso. Un uomo entra in un esercizio commerciale in pieno giorno, con la pistola in mano...»
«Già. Non è leale, vero? Per fortuna è arrivato il secondo uomo... A proposito, siamo certi che si tratti di un uomo? Potrebbe anche trattarsi di Batman, o di Wonder Woman...»
Memet non disse nulla. Thorne si avvicinò alla vasca, facendo scricchiolare il linoleum sotto le suole. «Ecco come stanno le cose: Stephen Ryan è un pezzo di merda, e tu per me sei uguale. Se Ryan adesso fosse qui nella vasca con te, sarei il primo a buttarvi un asciugacapelli acceso.»
«Devo sentirmi impaurito?»
«Devi ascoltare. Non ci saranno rappresaglie per quello che è accaduto nel vostro ufficio. È chiaro? È finita. Potete appendere le pistole al chiodo.»
«Non so di cosa parla.»
«Non me ne frega niente della "politica" della polizia, della ridistribuzione delle risorse e stronzate del genere. Non mi interessa neppure il fatto che voi teste di cazzo in realtà ci state facendo un favore, eliminandovi a vicenda. E ti dico questo: se appare un altro cadavere, se succede una cosa qualunque al genero della zia del cugino di Stephen Ryan, io comincerò a darvi fastidio sul serio. Qualunque sia la posizione ufficiale della polizia.»
Memet Zarif rispose in tono divertito, ma il suo viso rifletteva anche confusione e curiosità. «Perché la prende in modo così... personale?»
All'improvviso Thorne si sentì impotente, come suo padre quando cercava le parole che si ostinavano a sfuggirgli. Avrebbe voluto esprimersi in tono determinato, perentorio. Invece udì le parole che uscivano in un mormorio poco convinto. «Perché voi non vi fermate dove si fermano gli altri» disse, fissando la striscia di silicone sporco che correva tra il pavimento e la vasca. «Perché non avete una linea...»
Ci fu un lungo momento di silenzio, poi Memet si sollevò a sedere sul bordo della vasca. L'acqua gli gocciolava dalle spalle, scorrendo in rivoli sul pelo nero del petto e della pancia rotonda.
«Parlerò con le persone che hanno più influenza nella nostra comunità...»
«Non cominciamo con questa storia» tagliò corto Thorne. «Ne ho avuto abbastanza.»
«La mia famiglia ha fatto tutto quello che le è stato chiesto.»
«A proposito di famiglia, tua moglie sa di questi lavoretti a mano nella pausa pranzo?»
«Si rende conto che ormai sembra disperato?»
«Sono disposto a fare qualunque cosa.»
Memet lo fissò senza dire nulla.
«Parlami di quello che fate» disse Thorne. «Dimmi della gente che avete ammazzato, di come vi piace controllare la vita degli altri. Non può essere solo una questione di soldi, no?»
Memet, sempre senza parlare, si alzò in piedi, nudo, con un'espressione di sfida negli occhi.
«Avanti» lo incitò Thorne. «Non c'è nessuno, qui, a parte noi due. Io non sto prendendo appunti, la mia memoria non è più quella di una volta, e non ho un registratore in tasca. Parliamo sinceramente, almeno una volta...»
L'acqua del bagno si stava raffreddando, ma la stanza sembrava diventare sempre più calda. Memet allungò una mano verso l'asciugamano steso sullo schienale del divano, e cominciò ad asciugarsi. «Ricorda quel giorno nel ristorante di mio padre?» disse. «Lei mi chiese di esprimere un desiderio.»
Thorne rivide le lampade appese al soffitto, e il fumo delle sigarette che danzava intorno a loro come un genio delle Mille e una notte. E ricordò la sua battuta finale, prima di uscire. «E l'hai espresso?»
«Sì, ma non si è avverato.»
Thorne lo anticipò, sapendo dove sarebbe andato a parare.
Sorrise, ma sentì il sudore gelarsi sul collo, mentre diceva: «Perché io sono ancora vivo».
CAPITOLO 28
«So che avrei dovuto prendere un giocattolo, o qualcosa del genere.»
«Non si preoccupi, sono certo che potremo cambiarli.»
«Non credo. Ho gettato via lo scontrino...»
Parlavano a bassa voce, per non svegliare la bambina che dormiva in una culla di vimini sotto la finestra.
«Allora li terremo, non si può mai sapere.»
Appena vista la figlia di Holland, Thorne aveva capito che i vestitini che aveva comprato erano troppo piccoli per lei.
«Cosa? Pensate di fare un altro figlio?» chiese.
«Ecco...» Holland rise e bevve un sorso dalla lattina di birra. Thorne, furioso con se stesso, lo imitò.
«Sophie è dovuta uscire» disse Holland. «Mi ha detto di salutarla.»
Thorne annuì, sentendosi arrossire. Si rendeva conto perfettamente che Sophie preferiva non incontrarlo. Per quanto ne sapeva, magari era nascosta in camera da letto, in attesa che lui se ne andasse.
Erano seduti sul divano del soggiorno. Se il resto dell'appartamento era stipato come quella stanza, Sophie probabilmente non avrebbe potuto trovare un posto per nascondersi.
Holland sembrò leggergli nel pensiero. «Sophie pensa che dovremmo trovare un appartamento più grande» disse.
«E tu cosa ne pensi?»
«Sono d'accordo, in linea di principio. In quanto ai soldi necessari, be', è un altro paio di maniche.»
«Puoi fare un po' di straordinari.»
«Ne avevo tutta l'intenzione. Ma chissà se ora ce ne sarà richiesta.»
Thorne non aveva molta voglia di bere, nonostante fosse stato lui a portare la birra. Posò la lattina sul pavimento, e disse: «Non preoccuparti, Dave. La collaborazione con l'SO7 è finita nel nulla, ma là fuori è pieno di spostati di cui dovremo occuparci».
Holland annuì. «Certo, e spero che la prossima volta si tratti di uno psicopatico con tutti i crismi. Un appartamento di tre stanze sarebbe perfetto...»
La battuta era divertente solo a causa della macabra verità che conteneva.
Thorne sapeva fin troppo bene che, in un mondo pieno di incertezze, e in una città piena di contrasti come Londra, su alcune cose si poteva sempre contare. I prezzi degli alloggi salivano o precipitavano. Gli Spurs avevano stagioni medie e stagioni pessime. Il sindaco era un visionario o un idiota.
E il numero degli omicidi saliva sempre.
«Cosa ne pensa del fatto che abbiano deciso di chiudere l'operazione così all'improvviso?» chiese Holland. «So che lei e l'ispettore capo Tughan non siete grandi amici, ma...»
Thorne non aveva voglia di ripetere la conversazione avuta con Tughan, e cambiò discorso, raccontando a Holland come aveva passato la mattina.
«Immagino che avessero prenotato l'intero locale» disse.
«Un po' come quando chiudono Harrods per permettere a qualche star del cinema di fare shopping senza il fastidio dei fan» commentò Holland. «Solo che in questo caso si trattava di un bordello mascherato da sala massaggi.»
Thorne gli descrisse lo scambio di battute avuto con Hassan e Memet Zarif, esagerando i momenti in cui gli era sembrato di riportare piccole vittorie, e glissando su quelli più ambigui.
Non fece neppure un accenno alla sua paura.
«Crede che servirà a qualcosa?» chiese Holland.
«Probabilmente no» disse Thorne, guardando la schiena della bambina che si sollevava a ogni respiro. «Ma non possiamo lasciare che facciano il loro comodo e se ne vantino pure. Ogni tanto bisogna scuoterli un po', fargli sapere che ci siamo anche noi...» Thorne alzò gli occhi verso la finestra, e vide che fuori si stava facendo buio. «E comunque, farlo fa bene a me.»
La bambina cominciò ad agitarsi, scalciando piano e piangendo. Holland in un attimo fu accanto al cesto. Tirò via il ciuccio dalla bocca della bimba, poi lo spinse di nuovo dentro, e ripeté il movimento finché lei non si fu calmata.
«Sono colpito» disse Thorne.
Holland tornò a sedersi sul divano e bevve un sorso di birra. «Posso farle una domanda?»
«Purché non si tratti di pannolini e cose del genere.»
«C'è in giro una voce...»
Thorne, che non si era tolto la giacca di pelle, sentì una vampata di calore, come quando si era trovato nella sala massaggi in compagnia di Memet Zarif.
«Che voce?» chiese.
«C'è stato qualcosa tra lei e Alison Kelly?»
Una serie di immagini e di possibili menzogne passò in un attimo per la mente di Thorne. Chi aveva messo in giro quella voce? In realtà non importava. Preoccuparsene sarebbe servito solo ad aumentare i suoi problemi.
Thorne non voleva mentire a Holland, non voleva guardarlo in faccia e inventare cose che non erano vere. Alla fine, comunque, decise di dire la verità soprattutto per non complicarsi la vita con delle bugie. «Ho passato una notte con lei.»
Holland sembrò prima sorpreso, poi divertito, e infine la sua espressione si trasformò in qualcosa che convinse Thorne a raccontargli anche tutto il resto. Non sopportava di vedergli quello sguardo quasi ammirato.
Cominciò da quello che lui e Alison si erano detti al pub, per arrivare alla descrizione del corpo di Billy Ryan sanguinante sul pavimento della cucina di casa sua. Quando ebbe finito, restarono entrambi in silenzio a guardare Chloe che dormiva.
Dopo un minuto o due, Holland finì la sua lattina di birra e la schiacciò lentamente tra le mani. «Stiamo parlando in privato, vero?» disse.
«Se quello che intendi è: "Possiamo lasciare da parte il grado?" la risposta è sì.»
«Era proprio quello che volevo dire.»
La sensazione che avrebbe fatto meglio a non dire nulla stava diventando orribilmente familiare per Thorne. «Però si tratta di una cosa temporanea, eh? Altrimenti potrei irritarmi.» Lo disse sorridendo, ma sperava che la serietà sotto il sorriso fosse evidente. Sapeva che anche Holland, proprio come Chamberlain, doveva pensare che lui fosse un fottuto idiota. E non voleva sentirselo dire di nuovo.
Holland ci pensò su, poi fece quello che Thorne aveva ripetutamente mancato di fare.
Tenne la bocca chiusa.
Thorne pensò ad Alison Kelly per tutto il viaggio di ritorno. Cominciò a chiedersi, stranamente per la prima volta, cosa sarebbe successo se lei avesse raccontato a qualcuno come era andata.
Se Alison avesse menzionato la conversazione avuta con un certo ispettore di polizia, il suo avvocato le avrebbe di sicuro consigliato di renderla pubblica. Si trattava definitivamente di un'attenuante. Non era ragionevole concludere che l'equilibrio mentale di una donna poteva vacillare, dopo aver saputo che il suo ex marito era la stessa persona che aveva cercato di farla bruciare viva, quando lei aveva quattordici anni? La stessa persona responsabile delle sofferenze e della morte della sua migliore amica? Informazioni del genere non avrebbero sconvolto la maggior parte delle persone?
Mormorii di assenso tra il pubblico e i giurati.
Ma perché l'accusata aveva creduto a una storia così strampalata?
Ecco, vostro onore, la storia le fu raccontata da uno dei funzionari di polizia coinvolto nelle indagini sul suo ex marito. Di fatto, le diede queste informazioni dopo aver fatto l'amore con lei.
Mormorii ancora più forti
In realtà, Thorne non aveva idea di cosa gli sarebbe accaduto, se la verità fosse venuta fuori. Forse sarebbe partita una qualche forma di azione legale contro di lui, costringendolo a dare le dimissioni per evitare guai peggiori. Ma d'altra parte non sapeva per certo quale regola avesse infranto. Forse nel manuale c'erano disposizioni precise che lui non si era mai preso il disturbo di leggere. E certamente non poteva andare a chiederlo a Brigstocke.
Più ci pensava, più gli sembrava semplice. Alison Kelly, di propria iniziativa o dietro consiglio di altri, avrebbe sacrificato lui in cambio di una sentenza più mite?
Attraversando il ponte di Waterloo Thorne pensò che probabilmente l'avrebbe fatto.
Ma quando arrivò a Russell Square si era convinto del contrario.
Parcheggiando davanti a casa, l'unica cosa che sapeva per certo era che non l'avrebbe biasimata se avesse deciso di parlare.
Alison Kelly svanì dalla sua mente all'improvviso, quando, avvicinandosi alla porta con le chiavi in mano, vide il messaggio che qualcuno gli aveva lasciato. Rivide la faccia di Memet Zarif con l'acqua che gli colava dalle sopracciglia. E sentì di nuovo quella sensazione di gelo al collo. Seppe che Memet aveva preso una decisione: quando i desideri non si avverano da soli, bisogna fare qualcosa.
Restò a fissare alla luce dei lampioni la grande "X" incisa sulla porta.
CAPITOLO 29
Un minuto dopo era di nuovo in macchina, e gridava la sua furia al parabrezza, con il cuore impazzito e il respiro corto.
Era importante restare calmo, per arrivare tutto intero dov'era diretto. Doveva tenere a freno la rabbia, per scatenarla tutta addosso a Memet Zarif non appena lo avesse avuto tra le mani.
Lanciò un grido di frustrazione, e schiacciò il freno a un semaforo rosso. La BMW si fermò con un sobbalzo, e Thorne restò ad aspettare il verde con le mani strette sul volante.
Un taxi gli passò davanti, mentre il cuore lottava per uscirgli dal petto, stretto dalla cintura di sicurezza...
L'idea lo colpì all'improvviso come uno schiaffo, proprio mentre il semaforo diventava verde, e Thorne sentì una pungente certezza diffondersi in tutto il corpo. Lentamente, allungò una mano e accese le doppie frecce, dimentico delle auto che lo superavano lanciando rabbiosi colpi di clacson.
Un taxi...
Ripensò al viso dell'uomo al volante dell'Omega nera che aveva visto quella mattina. L'autista che gli aveva chiesto se voleva un passaggio. Ricordò dove l'aveva visto prima.
Il semaforo diventò rosso, poi di nuovo verde. Thorne invertì la marcia e tornò verso casa.
Perché quell'uomo guidava un taxi di Memet Zarif? Era possibile che lavorasse ancora, a quell'ora? Valeva certamente la pena di fare un tentativo.
La mente di Thorne correva senza freni, ancora sotto l'effetto dell'adrenalina. Ma ora una certa calma cominciava a scendere su di lui.
La calma di chi ha preso una decisione.
Stava già componendo il numero ancora prima di fermare la macchina. Appena fu sceso, lo scatarratore rispose, con il tono scortese che evidentemente era una sua caratteristica.
«Servizio taxi...»
«Ho bisogno di un'auto a Kentish Town, appena possibile» disse Thorne.
«Indirizzo?»
«Ascolti, vorrei un'auto di un certo tono, mi capisce? Avete una Mercedes, o qualcosa del genere?»
«No.»
Thorne si appoggiò alla portiera. «Dovete pur avere un'auto un po' più bella delle altre. Non so, una Scorpio, un'Omega... Non importa se costa un po' di più.»
«Abbiamo un paio di Omega» disse l'uomo, come se ogni sillaba gli costasse uno sforzo tremendo.
«Benissimo. Me ne mandi una. Chi è l'autista?»
«Perché vuole saperlo?»
C'era una traccia di sospetto in quella domanda? Thorne decise che si trattava solo del caratteraccio dell'uomo. «Un paio di settimane fa me n'è capitato uno che non stava mai zitto...»
L'altro gli disse il nome dell'autista, e Thorne sentì un formicolio di eccitazione. «Perfetto» disse.
«L'indirizzo?»
Thorne fissò la "X" sulla porta. Non aveva nessuna intenzione di dare un indirizzo che tutti loro dovevano conoscere bene. Non voleva che l'autista sapesse chi stava andando a prendere. Nominò un negozio di Kentish Town Road dicendo all'operatore che avrebbe atteso davanti all'ingresso.
«Il taxi arriverà tra quindici minuti.»
Thorne si era già avviato verso il luogo dell'appuntamento.
In realtà i minuti furono quasi venticinque, ma il tempo passò in fretta. Thorne aveva molte cose a cui pensare. L'autista che quella mattina gli aveva chiesto se voleva un passaggio, forse sapeva chi era. Non c'era modo di esserne sicuri. Thorne sperava proprio di no. Sperava che l'uomo l'avesse fermato solo perché lo aveva preso per un potenziale cliente.
Quando l'Omega arrivò, Thorne fissò l'autista. Non vide traccia di finzione sul suo viso.
Salì a bordo, sapendo bene che in passato gli era già accaduto di sbagliarsi, su cose del genere.
«Dove andiamo?» chiese l'uomo.
Thorne non ci aveva pensato. «Hampstead Garden» disse. Era un quartiere distante qualche chilometro, dopo Highgate. Thorne sperava che avrebbe saputo quello che voleva ben prima di arrivare a destinazione.
L'autista si diresse a nord, lungo Kentish Town Road. Per cinque minuti nessuno parlò. Forse l'operatore aveva detto al tassista che il cliente non amava le chiacchiere, o forse era il tassista a non avere nulla da dire. A Thorne andava bene così.
L'aveva riconosciuto. Si trattava di Wayne Brookhouse, uno dei visitatori di Gordon Rooker. Il suo viso era sulle stampe che Holland e Stone avevano ricavato dai video a circuito chiuso della prigione. Brookhouse, ammesso che quello fosse il suo vero nome, non aveva più gli occhiali e portava i capelli un po' più lunghi di quando era andato a trovare Rooker l'ultima volta. Rooker aveva detto che si trattava del fidanzato, o ex fidanzato, di sua figlia.
Cosa aveva detto di lui Stone, dopo averci parlato? Sembra un po' losco. Thorne aveva ragione di credere che il giovane fosse molto più losco di quanto avessero pensato.
«Giornata piena, eh Wayne?» disse.
L'uomo si voltò a metà verso il sedile posteriore. «Ci conosciamo?»
«Abbiamo un amico comune.»
«Ah...»
Thorne osservò gli occhi di Brookhouse muoversi continuamente dalla strada allo specchietto. Gli sembrava quasi di sentire il rumore degli ingranaggi nel suo cervello, mentre si chiedeva chi diavolo fosse il suo cliente. Thorne decise di dargli un piccolo aiuto.
«Come va la vita amorosa, Wayne? Scopi ancora con la figlia di Gordon Rooker? A proposito, come si chiama?»
La schiena dell'uomo si irrigidì. Ci fu un silenzio. Forse Brookhouse stava cercando di decidere quale fosse la risposta giusta, date le circostanze. Forse non aveva neppure mai conosciuto la figlia di Rooker.
«Chi cazzo sei, eh?»
Evidentemente aveva deciso per una strategia aggressiva.
«Ehi, con un atteggiamento del genere, niente mancia...»
«Okay, scendi.» Brookhouse mise la freccia e accostò.
«Continua a guidare» disse Thorne, in un tono che non ammetteva repliche.
Brookhouse si portò al centro della carreggiata e proseguì, costeggiando i campi da tennis ai piedi di Parliament Hill.
«C'è una cosa che non ho ancora capito» disse Thorne. «E cioè se tu lavoravi già per Memet e lui ti ha proposto a Rooker, o se conoscevi già Rooker ed è stato lui a trovarti lavoro come tassista.»
Attese per qualche secondo una risposta, poi continuò: «Non è importante. Si tratta solo di una curiosità. In un modo o nell'altro, tu eri quello che passava i messaggi tra l'uno e l'altro, interpretando la parte del povero stronzo ex fidanzato della figlia di Rooker».
C'erano una quantità di domande che non avevano ancora una risposta, ma una cosa era chiara: mentre Rooker cercava di concludere un accordo con la polizia, stava cercando di farne uno parallelo con Memet Zarif.
Se la sua idea era quella di fregare Billy Ryan, aveva preferito stare sul sicuro.
«Rooker ci ha detto che tu fai il meccanico. È vero, Wayne, o è un'altra balla? Sei riuscito a convincere il mio agente, quando è venuto a parlarli...»
«Lei è Thorne!»
«Indovinato. E tu sei fottuto.»
Brookhouse allungò una mano verso il sedile del passeggero. Thorne lo prese per i capelli e gli tirò la testa all'indietro.
«Ah! Cristo, mi fa male!»
Thorne guardò sul sedile anteriore. L'uomo aveva cercato di prendere un telefonino.
«Ascolti, io ho solo fatto finta di essere un visitatore» disse Brookhouse, con voce strozzata, in tono improvvisamente più rispettoso. «Passavo informazioni, nulla di importante. Non so nulla di nulla. È la verità.»
Thorne fissò il telefonino posato sopra la giacca a vento blu ben piegata sul sedile. Wayne Brookhouse si era già spacciato per meccanico e per l'ex fidanzato della figlia di Rooker. Thorne si chiese se non avesse interpretato anche un altro ruolo.
«Ora accosta» disse. «E ferma la macchina.»
«Perché?»
Thorne gli tirò con maggior forza la testa all'indietro. «Devo fare una telefonata.»
Chamberlain sollevò il telefono senza distogliere gli occhi dal televisore. La voce di Thorne la mise immediatamente in allerta.
«Oh, ciao, Tom.»
Mentre Thorne parlava, l'espressione di Chamberlain cambiò. Jack le gettò un'occhiata, poi abbassò il volume della tivù.
Thorne le chiese di ascoltare.
Chamberlain sorrise al marito e scosse la testa. Nulla di importante...
Thorne premette il telefono contro la guancia di Brookhouse, fino a farlo gemere di dolore.
«Adesso dillo di nuovo» disse. «Nel tono giusto.»
Brookliouse fece un respiro profondo. «L'ho bruciata io...»
Thorne avvicinò il telefono all'orecchio, senza mollare la presa sui capelli di Brookhouse. Qualcosa, nel silenzio di Chamberlain, gli fece capire che aveva riconosciuto la voce.
«Carol...?»
«C'è un treno tra quindici minuti» disse lei. «Posso essere a Londra tra un'ora e mezza.»
Thorne restò in dubbio solo per un secondo. Sapeva quale sarebbe stata la reazione di Chamberlain già prima di telefonarle. «Fammi uno squillo quando arrivi» disse. Poi sbatté la faccia di Brookhouse contro il finestrino. «Verremo a prenderti in taxi.»
CAPITOLO 30
Il viso di Wayne Brookhouse, attraente sotto la massa di capelli neri, si aprì in un sorriso. Solo il rossore intorno all'orecchio destro e l'espressione delle due persone sedute di fronte a lui indicava che stava accadendo qualcosa fuori dall'ordinario.
«Quanto ancora dobbiamo andare avanti con questa storia?» chiese.
Mancava poco a mezzanotte, e nelle due ore trascorse da quando Thorne aveva chiamato Chamberlain, il giovane aveva recuperato la sicurezza di sé.
«Non ci ho ancora pensato» rispose Thorne.
«L'avevo capito...»
Chamberlain guardò Thorne, seduto accanto a lei su una sedia portata dalla cucina. Brookhouse era davanti a loro, sul divano. «Non credo che ci sia un limite. Dico bene?»
Thorne scosse la testa, poi si rivolse a Brookhouse. «Dicci come funzionava tra te, Rooker e Zarif.»
Senza perdere il sorriso, Brookhouse disse: «Si vede che non la pagano abbastanza. Questo posto fa schifo».
«Perché fingevi di essere il responsabile del tentato omicidio di Jessica Clarke?»
Thorne sapeva che arrivare alla verità non sarebbe stato semplice. Aveva messo insieme alcune tessere del puzzle, e stava cercando di ottenere le risposte alle domande più importanti facendone altre di cui conosceva già la risposta.
«Puzza, anche» continuò Brookhouse, come se niente fosse. «Di curry.»
Chiunque fosse stato a elaborare il piano (e Thorne avrebbe scommesso che era stato Rooker), aveva voluto attirare l'attenzione della polizia. E ci era riuscito. Brookhouse aveva fatto le telefonate e spedito le lettere, e poco dopo un idiota era andato a parlare con Rooker in carcere. Lo aveva messo sotto pressione, finché Rooker aveva confessato la propria innocenza e fatto il nome di Billy Ryan. Li aveva giocati in pieno.
Un idiota...
«Quindi Rooker stava cercando di assicurarsi protezione sia da parte nostra, sia da parte di Memet Zarif. È così, Wayne?»
«Sei venuto a casa mia» disse Chamberlain, lisciandosi la gonna. «Sei venuto nel mio giardino e mi hai guardata.»
Brookhouse stese le gambe e incrociò i piedi calzati in un paio di scarpe da jogging. «Tutto questo è assurdo» disse. Indicò Chamberlain con un cenno del capo. «Lei non è neppure della polizia. Sembra mia zia, Cristo...»
«Io sono della polizia» disse Thorne.
«E allora? Non saremmo qui se si trattasse di una faccenda ufficiale. È ovvio che non ha intenzione di arrestarmi. Si tratta di una cosa... privata. Giusto?»
Thorne scrollò le spalle. «Cosa vuoi fare, Wayne? Vuoi chiamare la polizia?»
Brookhouse si chinò in avanti, poggiando gli avambracci sulle ginocchia. «Potrei chiamare il mio avvocato...»
«Il telefono è nell'ingresso.»
Brookhouse sostenne lo sguardo di Thorne per alcuni secondi, poi sorrise di nuovo. «Non potete farmi un cazzo.» Cominciò a ridere di gusto, e Thorne vide che non fingeva. Trovava davvero divertente quella situazione. Era convinto di essere protetto, di non rischiare nulla.
«Hai proprio ragione, Wayne. È una faccenda privata. Il che significa che se ora ti prendo a calci fino a farti arrivare i coglioni in gola, non rischio di perdere il posto.»
La minaccia riuscì a fermare l'attacco di risa, ma Brookhouse continuava a non sembrare preoccupato. «Per me va bene. Credo che possa finire solo così, no?»
«Questo dipende da te.»
«Come ho detto, se vuol provare a menare le mani faccia pure. Basta che la finiamo. E non creda che mi limiterò a prenderle, amico.» Indicò Chamberlain con un cenno del capo. «Vuole provarci anche la signora? Io non ho problemi, un paio di ceffoni glieli mollo volentieri.»
Chamberlain si alzò di scatto, gridando: «E non hai problemi neppure ad appiccare il fuoco a una ragazzina a una fermata dell'autobus, vero?».
«Non so di cosa parla...»
Thorne ormai sapeva che l'attentato a Swiss Cottage era stato progettato per alzare la posta, quando sembrava che l'offerta di Rooker fosse stata rifiutata. E aveva ottenuto il suo scopo, visto che la polizia aveva immediatamente ripreso in considerazione l'accordo.
«Sei stato tu, vero, Wayne?» disse Chamberlain torreggiando sopra di lui con il viso rosso. «Si tratta di tentato omicidio, lo sai? Rischi la stessa condanna di Rooker.»
Brookhouse la fissò, pulendosi con calma la guancia dalla saliva che Carol Chamberlain gli aveva spruzzato addosso mentre parlava.
«Sei un vero factotum, eh, Wayne?» disse Thorne. «Sei l'unico in grado di fare questo tipo di servizi a Memet, oppure i fratelli Zarif hanno speso tutti i loro soldi in puttane e killer falliti, e ora devono accontentarsi?»
Brookhouse non disse nulla.
Thorne si chinò in avanti. «Chi ha inciso quella "X" sulla mia porta, Wayne?»
Il giovane sbadigliò, poi disse: «Ma vaffanculo...».
Thorne strinse i pugni, ma in quel momento Chamberlain, di nuovo calma, gli disse: «Non hai un paio di manette, in casa?».
Gordon Rooker stava facendo shopping.
Aveva già speso parecchio in vestiti nuovi e scarpe alla moda. Aveva offerto da bere a un sacco di estranei che ora erano i suoi migliori amici. Aveva comprato un telefonino ultimo modello, un bello stereo e un televisore con lo schermo piatto da mettere in soggiorno.
Non sapeva ancora in quale casa sarebbe stato quel soggiorno, o quando avrebbe davvero avuto la possibilità di comprare tutte quelle cose. Ma gli piaceva sbrigliare l'immaginazione, steso sulla sua branda, al buio.
Tra poco avrebbe di nuovo assaporato la gioia di possedere degli oggetti, avrebbe sentito il fruscio delle banconote tra le dita... Cercò di immaginare il futuro. Era una cosa che aveva fatto centinaia di volte, in passato, ma stavolta era diverso. Stavolta la libertà poteva quasi toccarla, sentirne l'odore. Mancavano solo pochi giorni al suo rilascio.
Con la fantasia pranzò in un ristorante di lusso che probabilmente non esisteva neppure più. Ordinò una bottiglia del miglior vino, lasciò una mancia sostanziosa, e uscì dalla porta con la sensazione che persino la sua merda sarebbe stata zuccherina.
Si era parlato di soldi, quando Ryan era ancora vivo, anche se loro non avevano menzionato una cifra precisa. Rooker sapeva che ora gli avrebbero dato meno, ma qualcosa dovevano pur dargli. Non potevano certo mandarlo in una città sconosciuta, indicargli l'ufficio di collocamento più vicino e lasciarlo vivere del sussidio di disoccupazione.
Aveva cercato più volte di ottenere risposte precise da quel bastardo di Thorne, ma era stato come pisciare controvento. C'erano ancora molte cose da sistemare. Questo lo spaventava un po', dopo vent'anni di routine, ma era più che disposto ad affrontare la novità. Aveva solo bisogno di sapere la data del rilascio. Una data precisa, nero su bianco.
Continuò il suo shopping, comprando decine di libri. Romanzi di spionaggio, biografie... Comprò anche un abbonamento per la stagione calcistica allo stadio di Upton Park. Dovunque l'avessero mandato, avrebbe trovato il modo di tornare a Londra, di tanto in tanto, per veder giocare suo nipote.
E si pagò anche una donna. In galera esercitava molto il polso, ma fuori avrebbe lasciato fare tutto il lavoro alle puttane. Sarebbero stati soldi ben spesi.
Nella sua cella, Rooker scivolò nel sonno pensando a letti soffici e grandi, e a una carne morbida sotto le dita che non fosse la sua.
CAPITOLO 31
Nel breve tempo trascorso da quando Thorne aveva conosciuto Wayne Brookhouse, non gli aveva ancora visto quell'espressione: gli occhi sporgenti, il viso rigido e la pelle gialla come un giornale vecchio.
Conosceva molto meglio i lineamenti di Carol Chamberlain, ma anche lei aveva il viso distorto da un'espressione strana.
«Tutto questo è... assurdo» disse Brookhouse, scuotendo la testa da un lato e dall'altro, e divincolandosi nel tentativo di liberarsi.
Era steso sul letto, un polso ammanettato alla testata, l'altro legato con una cravatta nera che Thorne tirava fuori solo per i funerali.
Thorne era seduto sulle sue gambe ai piedi del letto, e lo teneva fermo.
Chamberlain finì di sbottonargli la camicia e afferrò il ferro da stiro sul comodino, collegato a una prolunga rossa a sua volta inserita in una presa. «Normalmente odio stirare» disse.
Brookhouse lanciò una serie di imprecazioni. Stava facendo del suo meglio per non mostrarsi impaurito, e ci riusciva abbastanza bene. Forse trovava un po' ridicola la vista di una donna quasi sessantenne che giocava alla torturatrice dilettante.
Thorne al suo posto sarebbe stato più spaventato. C'era qualcosa, negli occhi di Carol, che non aveva mai visto prima. O forse mancava qualcosa che c'era sempre stato.
«Parlaci di X-Man» disse Thorne.
Brookhouse chiuse gli occhi. «Non posso.»
Chamberlain abbassò il ferro a pochi centimetri dal suo petto. Thorne la fissò, non riuscendo a capire se faceva sul serio oppure no. «Avanti, Wayne...»
Brookhouse ebbe uno spasmo, sentendo il calore del ferro da stiro. «È andato via. È partito. È fuori dal paese, va bene?»
«Dove?» chiese Thorne.
«Non lo so, cazzo. Lo giuro. Forse in Serbia. Credo che fosse serbo.»
«Dimmi come si chiama.»
«Non lo so. Non l'ho mai incontrato...» Il ferro calò di un altro paio di centimetri, e lui cominciò a parlare in fretta. «L'ho visto solo una volta nel ristorante. Era seduto in un angolo e sorrideva. Capelli neri e un sorriso da star del cinema, con un sacco di denti.»
Thorne ricordò l'uomo nell'auto fuori dal suo appartamento. Ricordò quel sorriso, e capì di essere stato molto vicino a sentire una lama sulla schiena.
«Quando è partito?»
«Da un pezzo. Qualche settimana dopo l'ultimo, il poliziotto...»
Moloney.
Allora non era stato Billy Ryan a far uccidere Moloney. Era stato Memet Zarif, senza sapere che si trattava di un poliziotto sotto copertura. L'assassinio di Moloney era, per Thorne, una delle cose che Billy Eyan aveva pagato, con la sua morte. Una delle cose che giustificava quello che aveva detto ad Alison Kelly. Ora doveva toglierlo dalla lista, ma non faceva molta differenza. Ryan ne aveva parecchie, di cose da pagare.
«Se lui è partito,» disse Thorne «chi ha inciso quella "X" sulla mia porta?»
«Non lo so.» Brookhouse voltò la testa, lasciando una macchia di sudore sulle lenzuola. «Era solo per spaventarla un po'.»
«Chi è il mandante degli omicidi?» chiese Chamberlain. «Memet Zarif?»
Brookhouse scosse la testa.
«Vuoi dire "no",» disse Chamberlain, spostando il ferro dalla mano destra alla sinistra «oppure "no comment"?»
Brookhouse lottò per liberarsi, e Thorne dovette tenersi al bordo del letto per non farsi disarcionare. Pensò ai morti, e a coloro che erano stati pagati per ucciderli. Il macellaio che aveva assassinato Mickey Clayton, Marcus Moloney e gli altri. L'uomo che aveva sparato a Muslum e Hanya Izzigil, e quello che aveva abbattuto l'autista del TIR e i due immigranti clandestini che avevano cercato di scappare.
Pensò a tutti quelli che riuscivano a restare impuniti.
Come l'uomo che aveva usato un accendino e una lattina di liquido infiammabile...
Thorne si chiese quanto bene si conoscessero Brookhouse e Rooker. Rooker probabilmente si fidava di lui molto più che di qualunque poliziotto.
«Chi ha dato fuoco a Jessica Clarke, Wayne?»
Thorne vide un lampo nello sguardo del giovane, come un ragazzino sorpreso a rubare che cerchi di nascondere in tasca il malloppo. Guardò Chamberlain e seppe che l'aveva visto anche lei.
«Lo sai, vero?» disse Chamberlain.
Thorne la vide abbassare ancora un po' il ferro. Vide i tendini dell'avambraccio tesi nello sforzo di muoverlo lentamente, la concentrazione sul suo viso.
«Non lo farà...» disse Brookhouse.
Chamberlain girò la manopola del calore al massimo. Una goccia d'acqua cadde sul petto di Brookhouse, il quale sobbalzò.
«Immagina un dolore improvviso e rapidissimo» disse Chamberlain. «Solo un attimo, mentre io appoggio il ferro e torno a sollevarlo. Pensa invece a cosa succede se lo appoggio sul tuo petto e ce lo lascio. La carne che sfrigola. Quanto credi che ci vorrà prima di arrivare all'osso?»
Brookhouse spostò gli occhi dal ferro e fissò Chamberlain. «Cristo, ma siete scemi? Non c'era nessun altro uomo. Ero solo io, che fingevo di essere lui.»
«Lui chi? L'uomo che ha bruciato Jessica?»
«Lui. Rooker. È stato lui.»
La verità si impresse a fuoco nella mente di Thorne, come una cicatrice. Ora la vedeva, nel modo di camminare di Rooker, nel modo in cui si passava la mano tra i capelli, o leccava la cartina. Nel suo sorriso furbo prima di chiudere la tabacchiera...
Dal momento in cui aveva riconosciuto Brookhouse Thorne aveva capito che Rooker gli aveva mentito riguardo a molte cose. Ma sull'attentato a Jessica Clarke gli aveva creduto. Aveva sempre pensato che fosse un altro il colpevole, e che Rooker sapesse di chi si trattava...
«Tom...?»
Tutto era stato costruito sulla sua convinzione che Rooker fosse innocente. Non era stato Thorne a metterlo sotto pressione, fino a costringerlo ad ammettere la sua innocenza?
Chamberlain aveva sollevato il ferro da stiro e lo fissava, come aspettando qualcosa.
La grossa pietra della propria stupidità cadde con un tonfo sullo stomaco di Thorne. Ma il suo peso era bilanciato dall'esultanza di avere un nome, finalmente.
Quasi tutto quello che Rooker gli aveva detto era vero. Si era limitato a cambiare solo un piccolo particolare: quando Billy Ryan gli aveva chiesto di uccidere Alison Kelly, lui aveva accettato.
«Era perfetto» disse Thorne.
«Cosa?» chiese Chamberlain.
Rooker probabilmente era implicato nel primo tentativo di uccidere Kevin Kelly. E Billy Ryan, il numero due di Kelly, aveva tutte le ragioni di volerlo morto. Questo lo rendeva la scelta ideale per compiere l'omicidio della figlia di Kelly.
«Forse Ryan disse a Rooker che avrebbe cancellato il contratto su di lui, in cambio di un piccolo favore.»
Chamberlain non sembrava convinta, ma in fondo non importava. La cosa reale era la paura che Rooker aveva di Billy Ryan, basata sul fatto che Ryan non perdonava chi aveva sbagliato. Quello era il motivo per cui Rooker aveva confessato, accettando di passare una vita in galera. Una vita dominata dalla paura. E la paura gli aveva suggerito un piano per proteggersi, una volta uscito di prigione.
Uscirà tra pochi giorni...
Thorne decise che Brookhouse poteva scalciare quanto voleva, e scese dal letto. «Qual è l'accordo di Rooker con Memet Zarif?»
Di nuovo quel lampo negli occhi di Brookhouse. Ma stavolta nel suo sguardo c'era un autentico terrore.
«Ha molta più paura di Memet che di noi due» disse Chamberlain.
Brookhouse incrociò lo sguardo di Thorne. Aveva le lacrime agli occhi. Thorne cominciò a sospettare che la sua teoria su quale dei fratelli tirasse le fila fosse sbagliata.
«Non si tratta di Memet?» chiese.
Ci fu un gemito, e Brookhouse cominciò a scuotere il letto, nel tentativo disperato di liberarsi.
«Hassan?» gridò Thorne, al di sopra del rumore.
Nessuna risposta. Thorne fece un cenno a Chamberlain, e lei abbassò di nuovo il ferro da stiro. «Di chi si tratta, Wayne?»
Mentre il ferro scendeva verso il suo petto, Brookhouse smise di agitarsi e di singhiozzare. Si irrigidì e chiuse gli occhi, preparandosi a sentire il dolore.
C'era qualcosa, o qualcuno, che lo spaventava più delle scottature.
Chamberlain avvicinò il ferro a un centimetro dalla pelle. Cominciarono a formarsi delle vesciche.
«Mi sembri troppo contento di lasciarci fare, Wayne» disse Thorne. «Forse dovremmo andare al commissariato. Magari un'accusa di tentato omicidio ti spaventa di più.»
Brookhouse sputò fuori le parole ansimando. «La ragazza alla fermata dell'autobus... Era solo un'azione dimostrativa... Non avevo nessuna intenzione di farlo davvero...»
«Non mi sembra un granché, come difesa.»
«Tanto non importa.» Brookhouse aprì gli occhi e fissò la punta del ferro da stiro. «Non andremo al commissariato. Dico bene?»
Thorne lo fissò. Anche se era terrorizzato, Brookhouse sapeva fin troppo bene che quella faccenda non sarebbe mai arrivata a livello ufficiale.
«Hai ragione, non ci andremo.» Thorne si voltò verso Chamberlain. «Fagli sentire il ferro.»
Il modo casuale in cui l'aveva detto era in netto contrasto con quello che provava. Era come se il sangue stesse per esplodergli sotto la pelle. I tendini del collo sembravano sul punto di spezzarsi.
Fagli sentire il ferro...
Avevano lottato insieme per sopraffare Brookhouse, trascinarlo in camera da letto e immobilizzarlo. Da quel momento in poi, Thorne si era come ritirato in se stesso, seguendo impotente Carol Chamberlain in un territorio oscuro. Lei gli aveva detto di andare a prendere il ferro da stiro, e lui aveva obbedito. Si era fatto trasportare dalla sua decisione, esilarato e spaventato allo stesso tempo.
Osservò il vapore sfuggire da sotto il ferro come il fiato dei cavalli al funerale di Billy Ryan. Ascoltò il rumore delle manette contro la testiera del letto, mentre Brookhouse lottava per liberarsi.
«Mettigli sotto un asciugamano» disse Chamberlain. «Quando lo toccherò probabilmente si piscerà addosso.»
Thorne non capì se era un ultimo tentativo di spaventare Brookhouse o un semplice consiglio pratico. Fissò Chamberlain negli occhi, e capì una cosa: se Brookhouse non avesse parlato, lei gli avrebbe premuto sul petto il ferro da stiro.
Brookhouse non disse nulla.
Il ferro si avvicinò alla pelle, lentamente...
Chamberlain doveva aver deciso che ormai non aveva più niente da perdere. Stava per torturare un uomo. Thorne cercò di capire se le cose in cui credeva valevano la pena di essere difese.
Tra un attimo avrebbe sentito il rumore e l'odore della carne bruciata. Cercò di parlare, ma gli sembrò di essere diventato suo padre: le parole "No", e "Ferma" rifiutarono di salirgli alle labbra. I peli sul petto di Brookhouse cominciarono a sfrigolare. Thorne tese una mano.
«Carol...»
Brookhouse gridò, tirò in dentro il petto, poi gridò ancora quando il materasso lo spinse di nuovo contro la base del ferro da stiro.
Chamberlain scattò come se fosse stata la sua carne a bruciare. Anche lei e Thorne gridarono.
Dopo, restarono in piedi accanto al letto, pallidi e rigidi come cadaveri, a guardare Brookhouse che singhiozzava e diceva parole senza senso.
«Ba... ba...»
Thorne lo guardò mentre muoveva piano una gamba, in un modo stranamente simile alla bambina di Holland.
«Ba... ba... ba...»
Thorne guardò Chamberlain, senza capire se l'orrore dipinto sulla sua faccia era per quello che aveva fatto, o per quello che vedeva attaccato alla base del ferro da stiro.
Era passata circa un'ora da quando Wayne Brookhouse se n'era andato. Loro due erano seduti al buio, e non riuscivano a bere abbastanza in fretta. A un tratto una parola si formò all'improvviso nella mente di Thorne.
«Cosa faremo con Rooker?» chiese Chamberlain. «È stato lui a bruciare Jessica. Non possiamo lasciarlo uscire di galera.»
Thorne l'ascoltava appena. Stava cercando di ricordare dove aveva visto quella parola. Su una rivista... no, sullo schermo del suo computer.
Brookhouse non aveva detto parole senza senso.
Thorne aveva letto quella parola sul sito del National Criminal Intelligence Service, circa un mese prima. Una notte in cui non riusciva a dormire e si era lasciato assorbire dalla realtà miserabile del traffico di esseri umani. Aveva scaricato pagine contenenti informazioni sul crimine organizzato in Turchia e nel Regno Unito. Aveva letto degli usi e delle gerarchie nelle gang più potenti di Ankara e Istanbul...
Una parola che sembrava il blaterare di un bebè, e invece indicava l'esatto contrario.
«Tom? Mi stai ascoltando?»
Baba...
Thorne sentì rizzarglisi i peli del collo. Gordon Rooker non era stato l'unico a prenderlo in giro.
CAPITOLO 32
Thorne aspettò quasi una settimana, prima di tornare a Green Lanes.
Al lavoro non aveva fatto altro che andare avanti con il pilota automatico. Un caso veniva chiuso, e metteva via le carte relative. Un altro si apriva, e nuove carte si accumulavano sulla sua scrivania. Ma lui pensava solo a quello che era successo, a chi avrebbe pagato. Senza riuscire in nessun modo a cambiare la deprimente verità: non c'era nulla che potesse fare. Assolutamente nulla.
Erano circa le undici e mezza di giovedì sera. Il ristorante aveva appena chiuso, quando Thorne premette il viso contro la porta a vetri. Distinse Arkan Zarif seduto da solo a un tavolo, mentre la figlia Sema si muoveva dietro il banco.
Thorne batté sul vetro.
Zarif alzò gli occhi. Thorne non riuscì a decifrare l'espressione dell'uomo quando lo riconobbe. Zarif fece un cenno alla figlia, e lei venne ad aprire la porta, lasciando entrare Thorne senza dire una parola.
Le luci principali erano spente, ma da alcune lanterne filtrava ancora una luce arancione. Dalle casse dello stereo usciva la voce di una donna che cantava in turco. Una canzone d'amore e disperazione, a giudicare dal tono.
Zarif sollevò il bicchiere e gridò qualcosa alla figlia. Thorne si rivolse alla ragazza e fece cènno di no con la testa. Lei tornò a occuparsi delle sue faccende dietro il banco.
«Niente vino?» disse Zarif. «Allora un caffè?»
Thorne si sedette di fronte a lui, senza rispondere.
Per alcuni secondi si guardarono negli occhi, poi Zarif vuotò il suo bicchiere di vino, allungò una mano enorme verso la bottiglia e se ne versò un altro.
«Merhaba, Baba» lo salutò Thorne.
Zarif sorrise e alzò il bicchiere. «Merhaba...»
«Una volta abbiamo parlato di quello che significano i nomi, ricorda?»
Zarif non disse nulla.
«Abbiamo scherzato sul fatto che possono avere più di un significato. Come per esempio la parola baba.»
«È una parola dal significato semplice» disse Zarif.
«So cosa significa, e conosco il rispetto e il timore con cui la si usa, in Turchia.»
«Baba significa solo "padre".»
«Già. Padre nel senso di "capofamiglia". Significa essere un padre per i propri figli, per gli amici, e per quelli che le fanno guadagnare soldi. Un padre anche per quelli che farebbe uccidere senza pensarci due volte, nel caso le convenisse.»
«Io mi occupo di mia moglie e dei miei figli.»
«Certo. Gestisce una piccola azienda familiare, mentre gli altri rubano e ammazzano con le armi che lei mette nelle loro mani. Come funziona, Baba? Resterà al comando fino alla morte, o è già andato in pensione e ha passato le redini ai ragazzi?»
Zarif assaporò il vino, facendolo girare in bocca prima di inghiottirlo. «Quando gli affari non mi interesseranno più, andrò in pensione. Per ora preferisco restare attivo. Funziona abbastanza bene.»
«Certo che funziona. Memet e gli altri stanno in prima linea, mentre lei è solo il vecchio padre confinato in cucina.»
Zarif incrociò le mani sul ventre. Indossava lo stesso grembiule a strisce che Thorne gli aveva visto il primo giorno. «Cucinare mi piace davvero» disse. «Più che il resto dei miei affari. Inoltre in cucina sono al centro delle cose. Tutti sanno dove trovarmi.»
Thorne notò che Zarif parlava con un accento molto meno pronunciato, e non sembrava più lottare alla ricerca delle parole giuste. Aveva smesso di fingere.
Selma Zarif uscì da dietro il banco, dirigendosi verso le scale. A Thorne sembrò di cogliere sul suo volto la traccia di un sorriso, quando gli passò accanto. Come se lui ormai non fosse più una preoccupazione.
«Deve aver pensato che io fossi un autentico idiota» disse Thorne. «Seduto qui a mangiare con lei...»
«Niente affatto. Se vuol saperlo, la considero un vero uomo, ora che so cosa è capace di fare.»
I baffi di Zarif erano macchiati di vino. Thorne pensò che avrebbe fatto bene ad accettare qualcosa da bere.
«Un uomo capace di torturare, per ottenere ciò che vuole» continuò Zarif. «La performance con il ferro da stiro è stata... notevole.»
Thorne sentì qualcosa che gli si stringeva nel petto. «Quando ha parlato con Wayne Brookhouse?»
Zarif si portò il bicchiere alla bocca, e prima di bere disse: «Alcuni giorni fa».
Quando Brookhouse aveva lasciato l'appartamento di Thorne, gli addii non erano stati particolarmente affettuosi. Chamberlain non aveva detto una parola mentre Thorne slegava il giovane, poi entrambi erano restati a guardarlo mentre si precipitava, imprecando e inciampando, verso la porta. Solo all'ultimo momento Thorne lo aveva spinto contro la porta, cercando di fargli entrare in testa un consiglio sensato.
«Non tornare da loro» gli aveva detto. Sapeva che Brookhouse non l'avrebbe ascoltato, ma voleva almeno provarci. «Mi ascolti, Wayne? Va' a casa, fa' la valigia e taglia la corda.»
Ma Brookhouse non era stato molto intelligente. Era tornato da Zarif per raccontargli l'accaduto, e Thorne era sicuro che non avesse ricevuto la simpatia o il rispetto che pensava di meritare. Poteva quasi vederlo, mentre mostrava a Zarif la bruciatura sul petto, assicurandogli che nonostante tutto non aveva parlato. Zarif naturalmente aveva preso l'unica decisione possibile.
«Dov'è adesso?» chiese Thorne.
«Non lo vedo da un paio di giorni. Forse è partito.»
«Se da qualche parte viene fuori il suo cadavere, sa che tornerò.»
«Non verrà fuori nessun cadavere» disse Zarif, sorridendo per il doppio senso della frase. Sapeva di essere al sicuro, e la tranquillità sul suo viso era come una lama nel petto di Thorne.
Thorne cercò di convincersi di aver fatto la cosa giusta. Anzi, l'unica cosa possibile.
Se anche avesse portato Wayne Brookhouse al commissariato, la settimana prima, non avrebbe concluso nulla. Gli avvocati di Zarif avrebbero ottenuto il suo rilascio in poche ore. E alla polizia sarebbero restate soltanto alcune domande imbarazzanti da fare a Gordon Rooker.
E ora, anche se Thorne avesse deciso di andare da Brigstocke, da Tughan o da Jesmond, rivelando loro quello che sapeva e come lo aveva saputo, non ci sarebbe stato nulla da guadagnare. Avrebbe dovuto confessare che aveva torturato un testimone, che ora quel testimone era scomparso, e con tutta probabilità era morto e sepolto in un posto dove non l'avrebbero mai trovato. Dopodiché sarebbe stato lui a dover rispondere a delle domande imbarazzanti.
Molte di quelle domande, in realtà, se le era già poste da solo.
«Il signor Rooker è uscito di prigione ieri, se non sbaglio...»
«Non sbaglia, e lo sa benissimo.»
«È stata una sorpresa» disse Zarif, sollevando le folte sopracciglia. «Sapendo che aveva mentito, l'avete rilasciato ugualmente.»
Thorne aveva la bocca tanto secca che faceva fatica a parlare. «Ho deciso di non intraprendere le azioni necessarie per far sì che restasse in galera.»
"Ho deciso di non rivelare quello che ho scoperto. Ho deciso di non dire a nessuno che ho sequestrato un indiziato, l'ho trattenuto contro la sua volontà e non sono intervenuto mentre un'altra persona gli estorceva le informazioni con estrema violenza. Ho deciso di non rivelare la brutalità di Rooker e la mia...
Ho deciso di tacere la verità per proteggermi."
«Chissà cosa farà Rooker, ora» disse Zarif.
«Se ha un po' di buon senso, se ne starà nascosto. A lei non piace lasciare in giro testimoni scomodi, a quanto sembra.»
Zarif fece una faccia quasi offesa. «Oh, no. Rooker non ha nulla da temere da me. Avevamo un accordo, interessi comuni...»
«Certo. Lui doveva aiutarvi a liberarvi di Billy Ryan, e in cambio voi lo avreste protetto, una volta fuori di prigione. Gli avreste dato anche dei soldi... Molto più di quanto potevamo offrirgli noi.»
«Abbiamo stipulato un accordo, e io intendo onorarlo.»
Thorne passò una mano sul tavolo, raccogliendo sul palmo alcuni granelli di sale. «L'onore, certo. È una cosa importante, vero? Quanto onore c'è stato nell'omicidio di Marcus Moloney? Due tagli nella schiena e una pallottola in testa.» Thorne fece cadere il sale sul pavimento. «È stato un modo onorevole di morire?»
«E lui meritava onore,» ribatté Zarif «facendo quello che faceva? E lei, signor Thorne. Lei si comporta in modo onorevole?»
Un'altra domanda che Thorne si era posto decine di volte, negli ultimi giorni. «Quando mi tocca scendere al vostro livello, no.»
Sema chiamò il padre dalle scale. Zarif rispose, poi disse a Thorne: «Ora deve andarsene».
Thorne si vide mentre afferrava il bicchiere e lo spaccava sul viso di Zarif. Sentì il vetro rompersi, affondare tra i baffi del vecchio, vide il sangue schizzare...
«Dobbiamo chiudere.»
Thorne scacciò quella fantasia e si alzò in piedi. Arrivò fino al banco, poi si voltò. «Ha ricevuto il messaggio che ho dato a Memet, riguardo alle rappresaglie per il ferimento di Hassan?» Poi, senza aspettare risposta, aggiunse: «Certo che l'ha ricevuto. Perciò mi sono ritrovato la "X" sulla porta».
Zarif allargò le braccia. Macchie di sudore gli scurivano la camicia sotto le ascelle. «Mi dispiace per quell'azione» disse. «È stata un'idea di Hassan.»
«Hassan?» Thorne era davvero sorpreso.
«Normalmente è il più cauto dei miei figli, ma lei lo ha fatto davvero arrabbiare.»
«Be', ora lui ha fatto arrabbiare me.»
«Glielo dirò.»
«Bene.»
Zarif si alzò in piedi a sua volta. «Ha già sostituito la porta?»
Thorne fece cenno di no con la testa.
«Allora prenda dei soldi dalla cassa» disse Zarif, fissando Thorne con la stessa espressione vagamente divertita della figlia. «Non faccia complimenti, si serva pure.»
Thorne pensò che forse gli stava offrendo qualcosa di più delle poche decine di sterline necessarie per una porta nuova. Forse Zarif voleva scoprire che tipo d'uomo fosse realmente.
«Preferisco che sia lei in debito con me» disse, restituendogli il sorriso.
Zarif si strinse nelle spalle e andò alla porta, tenendola aperta per lui. Preparandosi a uscire, Thorne provò un vago senso di orgoglio, ma sapeva che non sarebbe durato neppure fino al marciapiede.
«Sangue e denaro» disse, passando accanto a Zarif.
«Cosa?»
«Mi ha detto di essere venuto in questo paese in cerca di pane e lavoro. Credo che sangue e denaro esprimano meglio il suo obiettivo.»
La brezza che entrava dalla porta aperta muoveva le lampade appese al soffitto. Giochi di colore danzavano sui muri. «Quando abbiamo parlato del significato dei nomi,» disse Zarif «abbiamo parlato anche del suo. Thorne. Piccolo, pungente, e difficile da togliersi di torno.»
«Dipende da quanto prende sul serio queste cose» disse Thorne.
«Io prendo molto sul serio i miei affari.»
«Bene, perché io non ho intenzione di rivedere la sua faccia, se non in tribunale. E non intendo tornare qui, nonostante il cibo sia ottimo.»
Zarif annuì. «Noi ci capiamo» disse.
«No» rispose Thorne. «Io non la capirò mai.»
Uscì in strada, aprendo la bocca per respirare l'aria fresca, e alcuni secondi dopo udì chiudersi la porta alle sue spalle.
Aveva avuto ragione sull'orgoglio. Era già scomparso. La notte era calda, ma camminando verso la sua macchina, Thorne rabbrividì.
Provava la sensazione di avere una matassa di filo di ferro nello stomaco. E ogni volta che ne tirava un pezzo, cercando di districarlo, la matassa si annodava ancora di più.
Prima aveva messo su della musica, poi aveva abbassato il volume. Infine aveva aperto una bottiglia di vino. Nulla lo aiutava a trovare un senso in quel pasticcio, o a capire il modo in cui lui stesso aveva contribuito a crearlo. C'erano stati troppi cadaveri e troppo pochi risultati.
Ma cos'altro poteva aspettarsi? Quelli come Baba Arkan Zarif erano a prova di bomba. Disponevano di complessi meccanismi di protezione, di soldati pronti a sacrificarsi, e di contatti nella polizia e nella magistratura che avrebbero fatto di tutto per evitare loro delle grane. Eppure, sapere che nessuno avrebbe pagato neppure per una piccola parte di quella carneficina, era una sensazione corrosiva che non lo lasciava in pace.
Alcuni uomini di Ryan e di Zarif erano morti. Gli affari di entrambe le famiglie avevano subito danni. La vita continuava come al solito. Ma non per Yusuf Izzigil, che aveva perso entrambi i genitori. Non per la famiglia di Francis Cullen, l'autista del TIR sequestrato. Non per la vedova di Marcus Moloney, il cui nome Thorne non conosceva neppure.
E c'erano altri, della cui morte Thorne stesso era direttamente responsabile.
Billy Ryan e Wayne Brookhouse.
Thorne sentì la palla di filo di ferro annodarsi ancora di più. Si chiese dove fosse esattamente la linea di confine. Forse lui l'aveva superata da tempo, e stava spostandosi verso un luogo oscuro, dove nessuno riusciva più a riconoscerlo, e le linee non esistevano più.
Guardò il telefono.
Chiuse gli occhi e vide la faccia di Gordon Rooker, con quel sorriso furbo. Lo immaginò mentre comprava della frutta al mercato. Mentre sedeva in un pub con gli amici. Mentre leggeva una rivista.
E c'era sempre la ragazza che bruciava.
La ragazza che si era buttata nel vuoto.
La sua faccia nella foto che Ian Clarke gli aveva dato. I lineamenti deturpati, le cicatrici...
La sua voce nel diario. Divertente e furiosa. Una voce che meritava di essere ascoltata...
Thorne si alzò dal divano e si diresse verso il telefono nell'ingresso.
Compose un numero di Wandsworth, e parlò brevemente con l'uomo che gli rispose. Disse che gli avrebbe restituito un diario e alcune foto. Poi gli chiese di prendere carta e penna.
E gli diede un indirizzo.
Quando riattaccò alzò di nuovo il volume dello stereo, si versò da bere e tornò a sedersi sul divano. Pensò al peso dell'anima. Chissà se era possibile irrobustire l'anima, per mezzo di esercizi spirituali. Se era così, il sistema doveva funzionare anche al contrario: con ogni cattiva azione l'anima perdeva peso. I malvagi sarebbero morti con un'anima che non pesava nulla.
Thorne allungò una mano verso la bottiglia di vino, chiedendosi se con la telefonata che aveva appena fatto la sua anima aveva guadagnato un po' di peso.
O se lo aveva perso.
Maggio
IGNORANZA
CAPITOLO 33
Era il giorno prima della finale di coppa, quando Thorne ricevette la telefonata.
Era passato poco più di un mese da quando un uomo di nome Gordon Rooker era stato trovato morto, ucciso da un ignoto che si era introdotto in casa sua.
Era la fine di maggio e pioveva. Tutto il resto era ugualmente prevedibile.
Le indagini su Ryan e sulla famiglia Zaríf si erano ridotte a poco più di una ventina di scatole su uno scaffale, e altri casi erano venuti a riempire il vuoto. Altre vittime avevano richiesto l'attenzione della polizia. Non c'era mai carenza di rabbia, desiderio sessuale o avidità. Né di cadaveri, quando quelle passioni spingevano gli esseri umani all'omicidio.
Tom Thorne aveva letto il Manuale per le indagini sugli omicidi in un'ora, e lo aveva dimenticato un'ora dopo. Dimenticava sempre ciò che non importava. Ogni giorno c'erano migliaia di nuove informazioni che avevano bisogno di spazio, per sfregare l'una contro l'altra creando la scintilla di un'idea che poteva servire a catturare un assassino.
Ma molte altre cose non venivano dimenticate. Si spostavano solo in luoghi più remoti e affollati della mente e del cuore. Luoghi che non avevano un nome, e dove le spire dei ricordi erano annodate più strette.
Thorne e Chamberlain si erano rivisti un paio di volte, e avevano parlato tranquillamente dei rispettivi casi di cui si stavano occupando. Era solo il passato recente a essere off-limits.
Quando era solo, Thorne trovava molto più difficile sfuggirgli.
Alison Kelly lo aveva chiamato, un pomeriggio. La conversazione era stata così pateticamente prosaica, che Thorne, dopo averle chiesto come stava, per poco non le aveva domandato anche dove stava. Più passava il tempo, meno ricordava il suo viso e il suo corpo, ma ogni volta che pensava a lei, ricordava l'iscrizione incisa nella pietra angolare del carcere di Holloway, dove lei era in attesa del processo: «Mio Dio, fa' che questo luogo sia il terrore dei malvagi».
Thorne sapeva che Alison Kelly non meritava di essere terrorizzata.
Era arrivata l'ora di tornare a casa. Riparandosi sotto una pensilina, nel parcheggio di Becke House, Thorne inalò il fumo della sigaretta di Holland e guardò la pioggia sporcare la BMW, che lui aveva lavato proprio quella mattina.
«Perché non vieni a casa mia, domani, a vedere la partita con me e Phil?»
Nonostante gli sforzi di Thorne, l'entusiasmo di Holland per il calcio restava tiepido.
«Non mi sembra una proposta molto eccitante...»
«No? Ma è la finale di coppa...» Thorne stava per aggiungere un commento sarcastico, quando il suo cellulare si mise a squillare.
Qualcosa, nella voce di Eileen, gli gelò il sangue e il sorriso.
«Tom...?»
«Cosa è successo?»
Thorne si diresse verso la macchina, affrettando il passo nel silenzio che seguì. Alla fine Eileen rispose: «C'è stato un incendio...».
«Cristo, di nuovo?» Si premette il cellulare contro l'orecchio, cercando freneticamente le chiavi dell'auto con l'altra mano. «Lui sta bene?»
Alle sue spalle, Holland urlò qualcosa che Thorne non sentì. «Eileen? Papà sta bene?»
«Mi dispiace, Tom.» La zia cominciò a piangere. «Lo hanno trovato in camera da letto...»
Thorne dovette appoggiarsi alla macchina per non cadere. Esclamò qualcosa di incoerente, poi soppresse il dolore prima che diventasse un urlo. Si disse che adesso era Eileen ad avere bisogno di conforto.
Aprì la portiera e salì in macchina. «Eileen...»
Accese il motore. Un incendio...
Pensò ai fornelli che non aveva mai fatto togliere dalla casa di suo padre. Sarebbe bastata una semplice telefonata, per farlo. Victor sarebbe stato felice di occuparsene. Eileen si era persino offerta di trovare qualcuno che lo facesse, ma Thorne aveva promesso che ci avrebbe pensato lui.
E non aveva neppure messo un lucchetto alla porta della cucina. La responsabilità era sua.
«Dov'è, Eileen? Dove lo hanno portato?» Ascoltò con attenzione le parole interrotte dai singhiozzi della zia. «Vengo subito, Eileen. Vengo subito...»
Poi un pensiero lo colpì all'improvviso, schiacciandolo contro il sedile con la forza di una palla di ferro.
Rivide Arkan Zarif che parlava dell'accordo con Gordon Rooker.
Un accordo che intendeva onorare.
Chissà se implicava anche una rappresaglia, nel caso che a Rooker fosse accaduto qualcosa.
Thorne si sentiva sul punto di vomitare.
Era stato un incidente, o un atto deliberato? Sarebbe stato possibile scoprirlo? Lui lo avrebbe mai saputo?
In un modo o nell'altro, comunque, la responsabilità restava sua.
Vide Holland che si avvicinava, camminando veloce sotto la pioggia. Vide formarsi sulle sue labbra le parole: «Tutto a posto?».
Thorne sembrava aver dimenticato come respirare.
Annuì lentamente e innestò la marcia.
Ringraziamenti
Durante le ricerche per questo romanzo ho imparato molto da due libri: Gangland Britain,di Tony Thompson (Hodder & Stoughton, 1995) e Gangland Today,di James Morton (Time Warner Books, 2002). Devo a questi autori molta gratitudine. Inoltre desidero ringraziare per il tempo e la pazienza l'ispettore Neil Hibberd e l'ispettore capo Jim Dickey nonché Richard Baldwin, il direttore dei cimiteri del municipio di Camden. Per l'umorismo devo una bevuta a Phil Nichol e a Carey Marx.
Ringrazio moltissimo Vedat Suruk Deniz e suo fratello Sedat, dell'Archgate Café di Londra, per il loro calore, per i consigli e per l'ottimo sucuk. Ringrazio inoltre Hikmet Pala per l'aiuto con la lingua turca e con i problemi di traduzione.
Voglio ringraziare i miei collaboratori alla Time Warner: David Young, Ursula Mackenzie, David Kent, Terry Jackson, Jess Clark (niente a che vedere con Jessica Clarke), Duncan Spilling, Richard Kitson, Nicola Hill, Andy Coles, John Turnbull, Robert Manser, Simon Sheffield, Nick Ross, Richard Barker, Andrew Halley, Gill Midgley, Miles Poynton, Emily Sugarman, Nigel Andrews, Emma Fletcher e Rooney.
Naturalmente, sono sempre in debito con: Sarah Lutyens, Susannah Godman, Lucinda Prain, Mike Gunn, Alice Pettet, Paul Thorne, Peter Cocks e Wendy Lee.
Infine un grazie enorme a mia moglie Claire per il sostegno e la santa pazienza. E per il caffè.
FINE